venerdì 12 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE II-2a

La Fondazione FIMAD (Federazione Italiana Malattie Apparato Digerente) deliberò poco dopo la sua morte di stanziare un Premio ‘alla memoria’:
“E' stato istituito il “Premio Aldo Torsoli” per ricordare la figura del Professore di recente scomparso che ha illuminato con la sua figura di scienziato, medico ed umanista, la gastroenterologia italiana. Il premio, del valore di 10.000,00 Euro, verrà attribuito ad un ricercatore laureato in Medicina e Chirurgia che nell’attuale anno solare rientri nei 45 anni di età e che abbia contribuito attraverso le sue ricerche in ambito gastroenterologico a migliorare le nostre conoscenze nel settore scientifico di sua pertinenza raggiungendo con la sua attività scientifica riconoscimento nazionale ed internazionale”.

Aldo Torsoli nacque a Carrara il 5 dicembre 1924.

Si laureò a Pisa in Medicina e Chirurgia nel luglio 1948 con il massimo dei voti e la lode discutendo la tesi:
“Primi rilievi sperimentali su le modificazioni indotte da un ambiente plasmatico eterotopo (midollare, periferico, splenico) su la morfologia e la osmodinamica delle emazie coltivate in vitro” (ricerche nell’uomo normale e nell’omopaziente).

studio che meritò subito al neolaureato l’onore della pubblicazione da parte del Bollettino della Società Medica Chirurgica di Pisa. (16, 222, 1948). Davvero un bell’inizio.

Ecco di seguito - in compendio - il suo splendido ‘curriculum’.

Dal 1948 prestò servizio presso la Clinica Medica dell’Università di Pisa, diretta dal prof. Cataldo Cassano, prima come Assistente Volontario, poi come Assistente Straordinario (1952-1955).
Trasferitosi a Roma il Prof. C. Cassano, Aldo lo seguì e prestò ancora servizio come Assistente Volontario prima presso la cattedra di Semeiotica Medica di Roma e poi presso quella di Patologia Medica (1956). Fu in questo Istituto Assistente Supplente (1957-1960) e, in seguito a concorso, Assistente Ordinario.
A partire al 1966 gli fu conferita la qualifica di Aiuto presso l’Istituto di Patologia Medica e poi presso quello di Clinica Medica II diretto dal prof. A. Beretta Anguissola (1972).
Fu professore incaricato di Gastroenterologia presso la Facoltà Medica di Roma (1969).
Dal 1971 Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Digerente (II) presso la stessa Facoltà.
Fu specialista in Tisiologia, Gastroenterologia e Radiologia. Parlava correntemente l’inglese e il francese, leggeva e scriveva il tedesco. Fin dal 1956 conseguì l’abilitazione alla libera docenza in Radiologia e dal 1962 in Patologia Speciale Medica e Metodologia Clinica. Dal 1968 fu libero docente in Clinica Medica Generale e Terapia Medica.
Nel 1970 il Nostro superò con il massimo punteggio, classificandosi al primo posto, gli esami nazionali di idoneità a Primario di Gastroenterologia.

Nel 1975 gli fu assegnata la prima Cattedra italiana di Gastroenterologia. Scriveva agli zii Aligi e Maria Bice:


Roma, 25/7/75

Carissimi,
queste foto vi ricorderanno il giorno del nostro matrimonio al quale foste così gentili da intervenire.
Infine c’è il mio curriculum, stampato recentemente. Ho vinto il Concorso universitario e pochi giorni orsono sono stato chiamato a ricoprire la Cattedra di Gastroenterologia in questa Università. Per questo c’è il curriculum nuovo.

Aff.mo Aldo


Negli istituti in cui prestò servizio Aldo T. svolse mansioni di capo-corsia e di capo reparto e, nello stesso tempo, di dirigente del servizio radiologico.
Dal 1959 si occupò della organizzazione di un’Unità Gastro-enterologica che in seguito dispose di varie corsie e laboratori. Dal 1965 guidò un gruppo di studio per la fisiologia e la fisiopatologia dell’apparato digerente, dipendente dal C.N.R.
Aldo T. fruì nel corso del tempo di varie borse di studio per soggiorni all’estero: in Svezia (1959), Canada (1962), Gran Bretagna (1965), Stati Uniti (1968). Svolse conferenze su invito in Italia, Svezia, Germania, Belgio, Regno Unito, Francia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Tunisia, Malta, Stati Uniti.
Fino al 1974 fu autore di non meno di 94 pubblicazioni incluse 5 relazioni a Congressi della Società Italiana di Medicina Interna (1963, 1966, 1972) e della Società Italiana di Gastroenterologia (1959, 1967). Ben 25 di queste pubblicazioni comparvero su riviste straniere.
Collaborò, per la parte “Stomaco e duodeno”, al Manuale di Patologia Medica diretto da D. Campanacci, edizioni Minerva Medica e fece parte, per l’apparato digerente, del comitato dei consulenti e degli autori del Trattato di Terapia Medica diretto da L. Baschieri per i tipi della C. E. Ambrosiana, Milano.
Nel 1967 organizzò un corso su “Tecniche e metodi moderni di studio dell’apparato digerente” promosso dal Ministero della Sanità.
Nello stesso anno fu eletto membro della European Society for Clinical Investigation. Fece parte del corpo redazionale delle riviste “Archivio Italiano delle malattie dell’Apparato Digerente” e “Rivista di Radiologia”.
Fu Referente della rivista “Digestion” e membro del Comitato Editoriale di “Leber Magen Darm” e “Médicine et chirurgie Digestives”.
Nel 1969 fondò, e poi diresse, la rivista “Rendiconti di Gastro-enterologia”, in lingua inglese e italiana. Sempre nel 1969 organizzò, in qualità di segretario, il 2nt International Symposium on Gastro-Intestinal Motility, al quale tenne una lettura di apertura su la “motilità dell’apparato biliare extra-epatico”.
Fu chiamato a far parte (1970-1973) dello Steering Commitee dell’International Group for the Study of Gastro-intestinal Motility. Dal 1971 fu anche eletto membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Gastroenterologia, rieletto nel 1973, membro della British Society of Gastroenterology, dell’American Gastroenterological Association e dell’European Gastro Club.
Innumerevoli furono gli interventi e partecipazioni personali e/o radio-televisive o a mezzo stampa nonché contributi in importanti pubblicazioni richiestegli. Furono per lo più interventi in materia medica specialistica, didattica o sanitaria istituzionale.
Abbiamo potuto reperire una copia del quotidiano “Il Giorno” che nel 1983 riportava: “L’opinione di Aldo Torsoli sul progresso scientifico”La formula giusta perché i medici siano tutti aggiornati è «Educazione e competenza continue» - “Casa farmaceutica e medico: un binomio importante”.

Anche il “Secolo d’Italia” in un lungo articolo dell’ottobre 1983 esponeva alcuni fra gli argomenti esaminati in un importante Congresso medico tenuto in quei giorni a Roma citando il contributo di Aldo Torsoli circa lo studio di nuove tecniche chirurgiche per l’esofago ammalato.
Interessanti, fra i numerosi altri, per ciò che attiene all’insegnamento in generale:

* Il coraggio di cambiare la formazione del medico / Aldo Torsoli. - Roma: Cidas Edizioni. - p.115-118 Sta in: L'Arco di Giano. - Anno 1998 n.16.

* Curare con il paziente. Metodologia del rapporto medico-paziente contributo di Aldo Torsoli e Gaspare Vella, nella collana Pratica clinica, pp. 288, figg. 30, 3a ristampa 2005, 3a edizione 2002.
E anche:

* Aldo Torsoli. Qualità dell'assistenza e nuovo contesto economico istituzionale - Assistenza clinica e sanità che cambia, IgSanPub,1997, 2/3:139-141.



Aldo sposò Annamaria Ticci nel 1974 e fu padre di Albertina (n. 1975, cg. Bertolio nel 2006). Morì a Roma nel dicembre 2002. Riposa nella cappella di Famiglia a Monticiano accanto ai genitori. Bene recita la dedica ivi posta: « Medico e Maestro ».

giovedì 11 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE I-2

Lo zio Aligi ricordava che suo padre fu particolarmente colpito dalla nomina a maggiore di fanteria del primo figlio, Alberto. Egli che aveva svolto il servizio militare di leva nell’ultimo quarto del secolo decimonono ricordava certo bene quella che poteva essere la prestigiosa figura d’un maggiore dell’epoca. Spesso in casa diceva compiaciuto alla moglie: “Luisa!...Il nostro Alberto…’promosso maggiore’!...” e non trovava altre parole per esprimersi ché tanto ne era legittimamente orgoglioso…
Pergentino, nato il 17 marzo 1866, morì il 3 settembre 1939 alla vigilia della seconda guerra mondiale e Luisa, nata nel 1868, morì l’ 11 dicembre 1953 avendo avuto la gioia e la consolazione di vedere i figli sopravvissuti felicemente sposati e con prole e vari affezionati nipoti, compresi quelli che sarebbero poi divenuti gli autori di queste pagine agli amati Nonni dedicate di cuore…

A Monticiano fu intitolata ad Augusto Barazzuoli, uomo politico e Deputato al Parlamento per varie legislature nativo della cittadina, la via principale che dal ‘Sodo’ (Piazza Sant’Agostino) conduce in piazza Cavour dove si trova il monumento ai Caduti e da cui si raggiunge la piazza Garibaldi. In quest’ultima sorgeva l’antico Palazzo Comunale con parte delle antiche mura cittadine (Porta Nord) e dove resta la Chiesa parrocchiale (detta ‘Pieve’) del sec. XII dedicata ai SS. Giusto e Clemente. Da questa piazza aveva origine la via del Portico che poi divenne quella via Mazzini dove oggi abita Francesco T. con la sua famiglia in quella che fu la casa dei nonni Azzurro ed Ermellina e che, ancor prima, era stata di Pergentino e Luisa. La strada conduce alla piazzetta del Litigio (oggi della Concordia detta comunemente la “Buca”) dove pure per un certo periodo abitarono in una casa presa in affitto Luisa e Pergentino.

Alighiero Torsoli, nato il 22 novembre 1893, cadde a 23 anni sul Monte Novegno - Monte Giove (Prealpi vicentine fra Brenta e Adige) il 13 giugno 1916.

Se l'istinto della conservazione è tanto forte in chi cadente, pieno d'anni e d'acciacchi, trascina grama vita, ben più forte dovrebbe essere nei giovani che vedono schiudersi dinanzi a loro una vita piena di gioie e di promesse, di speranze e desideri. Ma per la gioventù italica nata nell'ultimo scorcio del XIX Secolo non fu così. Andare al fronte, significava mettere a repentaglio la vita. Il solo fatto quindi di correre senza esitazioni e senza riserve era il primo atto di eroismo.
Alighiero, soldato di leva iscritto alla 2a Categoria fu ufficialmente arruolato il 29 marzo 1913, ma lasciato per il momento in congedo illimitato. Fu chiamato alle armi il 21 agosto 1914 e inviato all’87° Reggimento fanteria della Brigata ‘Friuli’ (dal 25 agosto), reggimento del quale aveva già fatto parte il fratello Alberto durante la guerra di Libia nel 1911-12. In due rare fotografie li troviamo ritratti ciascuno con le mostrine dell’87°.
Il 4 gennaio 1915 lo vediamo nel 128° Reggimento (Brigata ‘Firenze’) di Milizia Mobile con l’incarico di Trombettiere e infatti si trovava in questo reggimento quando scoppiò la guerra. Vi rimase fino al 30 marzo 1916.
In data 31 marzo 1916 venne trasferito nel 69° Reggimento di fanteria della Brigata ‘Ancona’.
Alighiero, ch'era di sentimenti italianissimi, giunto al fronte comprese che il suo posto era in prima linea. Credette che allora soltanto cominciasse il suo compito e si batté eroicamente col suo reggimento. Ma l'aver dato con entusiasmo il suo braccio non bastò ad appagare la sua sete di gloria; egli seppe compiere intero il sacrificio, quando cadde a 23 anni sul Monte Giove nell’accanita resistenza che fu necessaria per resistere alla ‘Strafe Expedition’ (‘Spedizione punitiva’) austriaca ideata dal gen. Conrad, Comandante dell’Esercito austro-ungarico nel primo periodo di guerra e lungamente preparata sia materialmente che moralmente.

Alighiero in un primo tempo fu dato ‘disperso’ nel combattimento del 13 giugno 1916, ma poi dovette ritenersi ‘caduto’ in quella terribile giornata. Dai registri del reggimento infatti risulta :

“Morto sul Monte Giove per ferita riportata per fatto di guerra, iscritto al n° 589 del registro degli atti di morte.
69° Regg. Fanteria, lì 13 giugno 1916”


Alighiero ebbe lo stesso preciso destino - di tempo e quasi di luogo - del sottotenente Antonio Bergamas (morto sul vicino Monte Cimone lo stesso giorno) la cui madre ebbe la ventura di trovarsi sulle rive triestine in quel fatidico pomeriggio del 3 novembre 1918 all’attracco della prima nave italiana al molo San Carlo. Il marinaio che aveva calato l’ancora le donò il nastro del cappello con la scritta «R. Nave “Audace”». Proprio Maria Bergamas, fu poi chiamata ad eleggere nella Basilica di Aquileia (ottobre 1921) fra undici salme di ignoti Caduti dallo Stelvio al mare quella che sarebbe stata inumata sull’Altare della Patria in Roma.

Punto importantissimo della guerra fu il Monte Cimone, alto 1230 metri sul livello del mare, a settentrione di Arsero, posto alla confluenza dell’Astico e del Posina. Dal Cimone era possibile raggiungere in due ore di marcia, la pianura, nelle vicinanze di Piovene. Dalla sua cima si dominava gran parte dell’Altopiano dei Sette Comuni e si poteva battere con l’artiglieria tutta la zona dell’Assa. L’altura dominava inoltre la Val d’Astico, la Val Posina e quindi l’accesso al Passo Barcarola, ragione per cui era la posizione chiave di tutta la linea dei monti Lessini. Senza esserne padroni, non si poteva tentare né l’avanzata verso Trento, né la riconquista della linea Lavarone-Folgaria e dei forti di Verena e di Campolungo. Monte Cimone perciò era una cima d’enorme rilievo strategico e nel corso della guerra avrebbe potuto decidere le sorti di Vicenza e di Venezia.
Consapevole dell’importanza del Monte Cimone, il comando austriaco ne aveva affidato la difesa a uno fra i migliori reggimenti dell’esercito imperiale: il 59° reggimento di Salisburgo che i contemporanei connazionali definirono “l’ineguagliabile”. Per evitarne l’aggiramento era stato collocato all’entrata di Val Freddo, una valle laterale del Posina, un altro reggimento di provato valore, il 14° di Linz. Così il Cimone pareva inespugnabile e se gli austriaci lo persero, ciò fu dovuto all’eroismo degli italiani, specie dei reparti alpini che ne scalarono letteralmente la vetta dalla parete sud in una notte di tormenta e si gettarono sugli austriaci in un corpo a corpo epico (luglio 1916) mentre altri attaccavano il 14° di Linz in Val Freddo. Ciò, dobbiamo dirlo, smentisce l’opinione di quelli che sostengono l’idea che in guerra il valore individuale non ha alcuna importanza, di fronte alla tecnica e al caso. Le operazioni per il possesso del Monte Cimone costituirono, tanto per gli italiani quanto per gli austriaci, un luminoso esempio di eroismo.
In seguito l’unico modo che il nemico ebbe di riconquistare la cima del Cimone fu quello di far scavare dal suo Genio delle gallerie a partire dalla Caverna Sud, preesistente, e piazzare all’interno enormi quantitativi di esplosivo (8700 kg di dinamon, 4500 kg di dinamite, 1000 kg di polvere nera che allo scoppio provocarono un grande cratere largo cinquanta metri e profondo venticinque) facendo poi saltare letteralmente la vetta del Monte (23 settembre 1916, esattamente due mesi dopo la conquista italiana) così come d’altra parte, mesi prima, gli italiani avevano fatto al Col di Lana occupato dagli austriaci. Veri drammi per entrambi gli avversari. Piccoli episodi, forse, nel gigantesco quadro della lotta tra i popoli europei, ma di così tragica grandezza da meritare di essere perennemente ricordati.

Il 15 maggio 1916 con un furioso bombardamento gli austriaci dettero inizio alla loro ‘Strafe-Expedition’. Lo schieramento di artiglierie di tutti i calibri, compresi il 381 e il 420, fu veramente formidabile. L’azione fu diretta personalmente dall’arciduca Eugenio.
Il 23 maggio fu fatto saltare il ponte di Roana sulla Valdassa, opera magnifica costata anni di lavoro; qualche giorno dopo cadde in mano agli austriaci anche Asiago, già trasformata dalla rabbia delle artiglierie e dagli incendi in una spaventosa rovina. Il torrente nemico dilagò travolgente ed impetuoso e forti posizioni caddero in pochi giorni in mano all’avversario.
Ma contro la decisa volontà dei nostri di resistere ad ogni costo la marea nemica finalmente si infranse. [A questo proposito è rilevante una lettera scritta fin dal mese di maggio dal generale Cadorna in cui egli, a seguito di alcuni episodi di cedimento dei reparti, affermò che – tenuto conto delle circostanze belliche – ogni atto di viltà di fronte al nemico sarebbe stato punito immediatamente e con la massima severità NdA].
Si svolsero combattimenti di terribile violenza, ma il nemico riuscì solo a massacrare i suoi migliori battaglioni. I nostri si comportarono in modo veramente eroico con i reparti della 27a Div. Italiana (Brigate ‘Sesia’, ‘Sele’ e ‘Volturno’). Erano gli ultimi giorni dell’ultima fase dell’attacco austriaco (11-18 giugno) operato dalle due ali interne delle due Armate (3a e 11a austriache) a cavallo dell’Astico nel disperato tentativo di sboccare nella pianura vicentina.
Il nuovo sforzo austriaco fu così diretto: la sinistra dell’11a Armata (XX Corpo) su Monte Novegno e Schio; la destra della 3a (I Corpo) su M.Mazzé e Breganze.
Ma, come abbiamo detto, il tentativo del XX Corpo austriaco si infranse il 12-13 giugno a M. Novegno contro la resistenza della 35a divisione; e fra il 7 e il 10 ugualmente era fallito l’attacco del I Corpo austriaco contro le posizioni di M. Zovetto e M. Lemerle, difese rispettivamente dalle divisioni italiane 30a (XVI Corpo) e 33a (XXIV Corpo).
Il nostro comando decise quindi di passare alla controffensiva; essa si svolse brillantemente tra il 16 e il 20 giugno.
Il Regio Esercito reagì con valore, ma ebbe perdite gravissime che si calcolarono in oltre 75.000 uomini in circa due mesi di accanita lotta.
La resistenza eroica e tenace valse ad allontanare l’immenso pericolo, insito nell’offensiva avversaria, di vedere la pianura vicentina raggiunta dal nemico che sarebbe, così, caduto alle spalle del nostro schieramento sull’Isonzo.
Si videro colonnelli d’artiglieria battersi all’arma bianca, una volta distrutti i loro pezzi: generali combattere tra i soldati, moschetto alla mano. E persino cappellani militari guidare gli assalti degli sparuti avanzi di intere Brigate. Le truppe stettero come un uomo aggrappato al davanzale della sua stessa casa, che rischia di essere buttato giù, e precipitare nell’immenso vuoto della cara pianura. I nostri uomini si batterono per qualcosa che capivano perfettamente, cioè per difendere effettivamente e veramente la Patria, e non solo per considerazioni di onore o di prestigio. E furono grandi, come grandissimi sarebbero stati al Montello ed al Piave solo due anni dopo.

Il combattimento fu cruento: le artiglierie di tutto il settore vomitavano sulle trincee una tempesta di ferro e di fuoco, mentre le mitragliatrici tentavano di spazzare il campo ed evitare l’urto. Ma l'urto fu inevitabile e sanguinoso.
Il 12 Giugno un formidabile schieramento di artiglieria posto soprattutto sull'altopiano di Tonezza, apre la strada all'attacco delle fanterie austriache contro il trincerone di Monte Novegno - Monte Giove. La linea italiana sembra cadere, ma un provvidenziale sbarramento di artiglieria costringe gli austriaci a riparare nelle proprie trincee.
Al mattino del 13 riprende l'attacco austro-ungarico, ma anche questa volta si spegne contro le ormai provate truppe italiane che vengono nei giorni successivi rinforzate da rincalzi. Il 69° reggimento ‘Ancona’ di Alighiero con leonino coraggio, si aggrappò alle inaccessibili cime. Travolto dalla furia della battaglia nell’epico combattimento il corpo del nostro caro si fuse con le rocce carsiche. La gloriosa salma non fu mai ritrovata, ma le sue gesta di umile Fante insegneranno alla gioventù italiana come vive, opera e, se necessario, muore chi sa amare la Patria e sente l’orgoglio di essere italiano. Egli morendo lasciò alla Famiglia il più nobile ed il più grande esempio di altruismo ed il retaggio più ambito per la gioventù della rinnovellata Italia mentre altri tre fratelli combattevano in altri settori del vasto fronte.


A metà giugno con la controffensiva italiana sull'Altopiano di Asiago e anche nel settore Posina le ormai stanche fanterie a.u. si ritirano su una linea più facile da difendere che si svolge sulla sinistra del Posina dal Monte Majo al Cimone. Il Priaforà viene rioccupato dagli italiani e anche la conca di Arsiero, abbandonata dagli Imperial-Regi viene rioccupata dalle truppe italiane.
Con la successiva conquista del Cimone da parte italiana e la riconquista austriaca con lo scoppio della nota mina, il fronte si assesta sulle posizioni che resteranno immutate fino al 1918.
E’ possibile che i resti di Alighiero siano stati tumulati come “Ignoto” nel Sacrario Militare di Oslavia dove sono raccolte 57.740 salme per lo più ignote (36.000). Si tratta di soldati Caduti nelle Undici battaglie dell’Isonzo dall’Altipiano della Bainsizza al Vipacco. Vi sono pure inumate 13 Medaglie d’Oro al V. M. Oppure, e forse più probabilmente, nel Sacrario Militare di Asiago dove sono custodite le spoglie di altri 54.285 Caduti di entrambi i fronti.
Nel Suo ricordo e in Suo onore vogliamo ricordare alcune strofe dell’inno che il celebre autore della ‘Leggenda del Piave’ dedicò al Milite Ignoto:

Soldato Ignoto e Tu
Sperduto fra i meandri del destino !
Mucchio senza piastrino
Eroe senza medaglia
Il nome tuo non esisteva più.
Finita la battaglia fu chiesto inutilmente
Nessun per Te poteva dir: “Presente !”
………………………………………
Soldato Ignoto e Tu
Ritorna dai meandri del destino!
Brilla il tuo bel piastrino
Fregiato della palma
Tu sei l’Eroe che non morrà mai più!
E solo la tua salma che è volta ad oriente
Da Roma può rispondere: “Presente!”

(dall’Inno al Milite Ignoto di E. A. Mario pseud. di Giovanni Gaeta)



Recitava un marmo nel Cimitero di guerra di Gallio:

CONTRO LA BALDANZA NEMICA
GIA’ SOGNANTE SUA FACILE PREDA
I NOSTRI CLIVI FIORENTI
LE NOSTRE UBERTOSE PIANURE
QUESTI PRODI
ALTO LEVANDO IL GRIDO
“DI QUI NON SI PASSA!”
FECERO DI PETTI GAGLIARDI
INSORMONTABILE BARRIERA


GIU’ DALLE VETTE
DEL LORO SANGUE VERMIGLIO
FRATERNA PIETA’ LI COMPOSE
META PERENNE
DI RICONOSCENZA DI AMORE E DI FEDE
AD OGNI CUORE ITALIANO


Ben si addice ad Alighiero la motivazione della Medaglia dOro al Valor Militare dedicata al Soldato Ignoto:

“Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessible nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senza altro premio sperare che la Vittoria e la grandezza della Patria.
24 maggio 1915 – 4 novembre 1918”
Seppero il nome mio gli umili Fanti
Quando balzammo insieme al grido: “Avanti !”



Aldo Torsoli, fu assegnato al 27° Reggimento di fanteria della brigata ‘Pavia’.
Nato il 29 dicembre 1899 - quando la sua classe fu chiamata alle armi aveva 16 anni e mezzo - accompagnato dai voti e dalla benedizione dei suoi, seppe rispondere all'appello senza esitazioni, anzi fu lieto di offrire il suo braccio alla Patria in guerra seguendo le orme degli altri familiari che si trovavano già al fronte.
Era stato dichiarato soldato di leva di 1a categoria e lasciato in congedo illimitato il 7 maggio 1917.
Il suo Foglio Matricolare annota che l’arte dichiarata era quella di maniscalco, statura m 1,54½, torace m 0,86, occhi grigi, naso piccolo, capelli castani e lisci, il colorito roseo, la dentatura sana.
Chiamato alle armi e giunto al deposito del 27° Reggimento fanteria il 14 giugno 1917. Giunto in territorio dichiarato in stato di guerra il 21 giugno 1917.
Il 12 settembre 1917 fu dichiarato come facente parte della 2a categoria al Distretto di Siena.
Trasferito al 262° Reggimento fanteria della Brigata ‘Elba’ (Deposito 19° Fanteria Brigata ‘Brescia’) il 10 novembre 1917.
Il 17 maggio 1918 lasciò il territorio di guerra perché ammalato e venne ricoverato all’Ospedale Territoriale n° 16 di Firenze da dove il 12 giugno venne inviato in licenza illimitata in attesa di decisioni ministeriali dopo aver subito visita medica collegiale. Dal 17 giugno in licenza straordinaria - con assegni previsti di L. 5 - in attesa dell’espletamento degli atti medico-legali (Ospedale Militare di Firenze).
Fu definitivamente congedato il 16 ottobre 1920 (con assegno rinnovabile a decorrenza dal 12 giugno 1920) perché riconosciuto inabile al servizio militare a norma del Decreto Legge ecc. ecc.
Il Foglio Matricolare annota diligentemente anche:

“Pagato il premio di congedamento in L. 150 (centocinquanta) dal deposito del 19° Regg. Fanteria.
Concessa dichiarazione di aver tenuto buona condotta e d’aver servito con fedeltà ed onore.”


Il suo reggimento si era coperto di gloria nel ’16 partecipando col reggimento gemello, 28° fanteria (e con il 231° e 232° fanteria, Brigata ‘Avellino’ – nella seconda guerra mondiale ‘Brennero’ NdA), alla presa di Gorizia (Gen. Capello, II C. d’ A.) ed anzi era stato tra i primi reparti, varcato l’Isonzo, ad entrare nella Città (agosto 1916). Era infatti dislocato nella zona di Oslavia vicinissimo a Gorizia.
Conosciuta la storia del valoroso 27° fanteria, Aldo si disse lieto di appartenervi e si ripromise di concorrere, con tutte le sue forze e all'occorrenza anche con la vita, per il trionfo degli ideali del Risorgimento. Svelto ed intelligente, Aldo partecipò con entusiasmo e con valore a tutte le azioni che si svolsero in quell'epoca nel suo settore essendo di esempio ai compagni.

La città di Gorizia era stata fortificata divenendo il "campo trincerato" più munito d'Europa. I monti che la circondavano, il S. Gabriele, il S. Michele, il Sabotino, il Montesanto, il Podgora ed altri ancora, erano stati anch'essi trasformati in inespugnabili fortezze. Uno di questi, il Podgora, dopo la battaglia con la quale gli Italiani riuscirono a conquistarlo, cambierà il nome in "Calvario", a causa dell'enorme tributo di sangue versato.
La conquista di Gorizia ebbe un eco enorme in tutta Europa. Proprio perché considerata imprendibile. Inoltre sfatò l'iniquo mito che considerava gli Italiani incapaci di battersi seriamente.
Tra le truppe che combattevano davanti a Gorizia c'era anche il poeta ventiseienne toscano Vittorio Locchi. Dipendente delle Poste e Telegrafi era partito volontario in guerra. Per celebrare la liberazione della città compose un Poema dal titolo "La Sagra di Santa Gorizia". Oggi è completamente dimenticato, ma sino agli anni '40 veniva insegnato nelle scuole. Qui si vuole proporre il passo finale quando le truppe italiane dopo l'ultimo assalto entrano in città.
Da La Sagra di Santa Gorizia
di Vittorio Locchi (1889-1917)

Il poemetto che segue è l’opera più nota di Vittorio Locchi. Narra in toni epici la battaglia per la presa di Gorizia (6a Battaglia dell’Isonzo). Venne pubblicato postumo. Infatti l’autore morì nel mar Egeo (Capo Matapan), dopo tre giorni di navigazione, il 13 febbraio 1917, a causa del siluramento del piroscafo 'Minas' che trasportava truppe italiane verso Salonicco in Macedonia. Nato a Figline Val d'Arno, egli era andato a combattere con l’entusiasmo dei ventenni. Da testimonianze dei superstiti del naufragio risulta che Locchi, nonostante avesse avuto la possibilità di salvarsi, preferì inabissarsi insieme ad altre centinaia di fanti affrontando il suo destino con determinazione.

[…] Tutte le notti uragani,
acqua a rovesci,
acqua e vento sulle trincee
e la povera fanteria,
la santa fanteria,
sguazzava nelle sue fosse
[…]
La mia Divisione,
la mia Divisione viveva!
Pronta, Dodicesima
Divisione di bronzo, è l’ora!
O mie belle brigate:
Brigata Casale,
Brigata Pavia,
Undicesimo, Dodicesimo,
Ventisettesimo,
Ventottesimo fanteria
è l’ora, è l’ora…
Ancora tre minuti,
due minuti, uno: ‘Alla baionetta!’
[…]
Sei nostra!
Sei nostra!
Sembra gridare l’assalto.
La Città è apparsa,
apparsa a tutti nel piano,
dalle vette raggiunte:
e tende le braccia.
E chiama,
lì, prossima,
tutta rivelata,
nuda e pura nel sole
di ferragosto,
è libera! libera!
sotto la cupola celeste
del cielo d’Italia,
sotto le Giulie,
l’ultime torri
smaglianti della Patria.

E su la prima linea
Nessuno più fiatava,
sentendo sul cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.
Ogni fante è proteso;
ogni ufficiale è davanti
ai suoi fucili.
I colonnelli estatici,
muti, stanno per dare
il segno ai reggimenti.
Nel cielo passano
ombre e ombre,
ombre di mamme,
ombre di figli,
ombre di giorni
lontani d’adolescenza,
visi amati,
mani sante,
carezzevoli
su tutte le facce:
parole d’amore
aliti di labbra
gesti religiosi.
E’ l’ultimo addio,
il consolo dei vivi
ai morituri che partono
che vanno
verso i confini
della vita terrena,
verso la luce, verso la gloria
attenti al segno,
attenti al segno!
Ancora tre minuti,
due minuti,
uno: “Alla baionetta!”
E tutte le baionette
fioriscono sulle trincee.
Tutta la selva di punte
ondeggia, si muove,
si butta sul monte
travolgendo gli Austriaci
rigettandoli
oltre le cime,
scaraventandoli giù
a precipizio
dentro l’Isonzo….



La mattina del giorno 9 agosto la cavalleria fece il suo ingresso a Gorizia. Eppure vi era stata preceduta da due ore dal giovanissimo sottotenente Aurelio Baruzzi (di Lugo di Romagna) del 28° Reggimento della ‘Pavia’. Egli alle sei del mattino aveva alzato il tricolore sulle rovine della stazione ferroviaria. Una delle rare medaglie d’oro non alla memoria. La vittoria con la quale la ‘Santa’ Gorizia fu annessa per sempre alla madrepatria fu splendida, soprattutto sul piano morale, ma le perdite complessive nel corso della Battaglia di Gorizia furono da parte italiana 1.759 ufficiali e 49.475 soldati; da parte austriaca 862 ufficiali e 39.285 soldati. Tale era stato il prezzo per la conquista di una fascia di terreno profonda circa 6 chilometri e lunga circa 25.


Abbiamo detto poco sopra che Aldo era nato il 29 dicembre 1899 e facilmente avrebbe potuto essere registrato all’anagrafe come nato il 1° gennaio 1900, ma la madre, per carattere sempre aliena dall’accondiscendere alle furbizie umane, volle che fosse registrato nel giorno effettivo della nascita secondo verità. Ora bisogna sapere che la classe 1900 fu chiamata alle armi, ma vennero avviati al combattimento solo i volontari.
Invece risultando nato nel 1899 (“i Ragazzi del ’99” si diceva) Aldo era stato inviato subito in trincea fra i combattenti dove, per tutti, non mancarono le occasioni di farsi onore. Ne fu ben consapevole il Comandante Supremo gen. Armando Diaz che, succeduto al Cadorna, volle citare i giovani del ’99 all’ordine del giorno:
“I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico e sul fiume, che in questo momento sbarra al nemico le vie della patria, in un superbo contrattacco, unito il loro ardente entusiasmo all’esperienza dei compagni più anziani, hanno trionfato. – …Io voglio che l’Esercito sappia che i nostri giovani fratelli della classe 1899 hanno mostrato di essere degni del retaggio di gloria che su essi discende” .

E diceva:

“Li ho visti i “ragazzi del ‘99” andavano in prima linea cantando.
Li ho visti tornare in esigua schiera; cantavano ancora…”


L’On.le Alfredo Baccelli, ministro della Pubblica Istruzione, il 15 agosto 1918 ebbe a dichiarare in Parlamento:

“Debbo chiamare milizia romana quei giovanetti del 1899 i quali, poco più che diciottenni, sciolti appena dall’amplesso materno, usciti appena dalle amorose sollecite cure domestiche, caldi per così dire di nido, spiccarono un volo che nessuna epopea potrà mai vantarsi di superare e, nello smarrimento di tragiche ore, seppero con il loro petto adolescente sbarrare la via ad uno dei più agguerriti eserciti del mondo. Onore a loro, onore alle loro madri, onore all’Italia, per questa superba pagina di eroico valore. Terra di miracoli la nostra, se bastarono volti imberbi e fragili petti a rinnovare una gesta romana, se quei fiori appena sbocciati di gioia e di luce, seppero trasformarsi così prontamente in roccia e macigno”.


Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Vittorio Emanuele Orlando dichiarò in Parlamento il 12 dicembre 1917:

“Ai valorosi che dall’Altopiano di Asiago alle foci del Piave, facendo scudo dei loro petti alla Patria – veterani di questa guerra immane e giovani reclute del ’99, che hanno offerto la loro esistenza per la difesa del suolo e dell’onore d’Italia – giunga il fiero e riconoscente saluto della Patria, nella forma più alta, qui al cospetto della rappresentanza della Nazione”.


Giovani eroi della Patria, essi rappresentarono il sacrificio, l'ardente passione, la salvezza e la fortuna della Patria. Senza di loro forse non si sarebbero avute le gloriose giornate del Grappa e del Piave, senza di loro la vittoria forse non ci avrebbe arriso.

Le perdite di uomini non derivarono soltanto dai combattimenti sostenuti. Lo vedremo anche più avanti specificamente. Furono numerosi i soldati che si ammalarono di tifo, colera, tubercolosi polmonare, scorbuto, malaria perniciosa, reazioni allergiche, congelamenti nei disagi delle trincee, malattie a quei tempi di incerto esito - e spesso mortali - mancando le odierne medicine. Altri, sfortunati, perirono in incidenti durante le istruzioni militari (lancio di bombe a mano). Non ultima causa di morte fu la pandemia passata alla storia come ‘febbre spagnola’ o polmonite (grippale) spagnola, come da molti si diceva [virus H1N1, detto anche A0] durante tre ‘ondate’ in meno di dodici mesi nel biennio 1918-1919 che in tutta Europa mieté più vittime dell’intera guerra; circa 375.000 (ma alcuni sostengono 650.000) soltanto in Italia.

Molti, sopravvissuti a stento, subirono gli effetti ritardati dei gas asfissianti lanciati proditoriamente dall’austriaco. Fu il caso del nostro Aldo.
Un ufficiale italiano incontrato dallo zio Alberto alla fine della guerra gli raccontò di essersi trovato presso Tolmino quando gli austriaci avevano usato i gas. In quel caso si era trattato di fosgene. Con parole piene di commozione gli descrisse la fine del reparto al quale era stata affidata la difesa del lato meridionale della valle: ottocento uomini erano morti in silenzio, come se fossero stati colpiti dal pugno di un fantasma, senza che nessuno di essi si rendesse conto di quello che avveniva. I superstiti furono al massimo una dozzina…


Sul granitico baluardo contro cui invano cozzò la ferocia nemica Aldo combatté con tutto il vigore giovanile e con tutta la volontà di compiere il suo dovere ricacciando il nemico, ma fu colpito dai nefasti effetti dei gas, di questa terribile e vile risorsa nemica. Superinvalido di guerra, morì nel 1925 dopo lunghi periodi di ricovero in ospedali diversi, tra cui quello di via Giramontino, presso il Monte alle Croci, a Firenze. Come il fratello Alighiero, caduto nel ’16, fu esempio di inesauribile valore e di elevato senso del dovere che portò avanti in tanti anni di dolorosa inguaribile malattia. Educato dai genitori ai più alti sentimenti di disciplina e di patriottismo, a chi ne lodava i meriti acquisiti in guerra, egli - modestissimo - diceva di aver fatto ben poco per la sua Patria che adorava:

"…In guerra eravamo legati alla nostra Bandiera, alla nostra divisa, ma non c'era astio ideologico, non c'era volontà d'annientamento del nemico. Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio, ma non ho combattuto per un vantaggio, per nulla che non fosse il nostro Paese…".
Dobbiamo aggiungere che quando fu annunziato che gli austriaci si servivano di mazze ferrate, di randelli muniti di punte aguzze, per finire i feriti e i morenti colpiti dai gas asfissianti e incapaci a difendersi, un grido d’orrore si levò in tutto il mondo civile e nessuno avrebbe immaginato che essi potessero menar vanto di questa nuova infamia di cui il loro esercito si era macchiato. Invece una cartolina reggimentale austriaca dell’epoca il cui disegno venne riportato dalla ‘Domenica del Corriere’ (Anno XIX, n° 48 – ‘Il cinismo dei barbari’), e che ci rifiutiamo di mostrare, riproduceva un austriaco in uniforme chiamato a simbolizzare l’esercito di Sua Maestà Apostolica che stringeva nel pugno non un’arma degna di soldati civili, ma l’infame mazza ferrata. Va detto, per amore di verità, che in principio i militari tedeschi rifiutarono l’impiego di un’arma così tremenda che apriva la strada alla scientifica distruzione di massa, appellandosi ai principi della guerra ‘cortese’ dove l’ufficiale va all’assalto alla testa ai suoi prodi tenendo la sciabola sguainata e inneggiando all’imperatore. Ma in seguito misero da parte gli scrupoli. La guerra era cambiata per sempre.
Va pure detto che, sdegnato dall'utilizzazione di gas tossici diventata una pratica corrente sul fronte francese, l’erede al trono Carlo d’Asburgo, Colonnello Generale e futuro imperatore d’Austria-Ungheria dal 1916, ottenne, dopo aver parlamentato con i Russi, che nessuno dei due campi ne facesse più uso. Rifiutò altresì che fossero bombardate le città. Approfondiremo più avanti i molti meriti di questo pacifico monarca, vittima eccellente di nefaste trame politiche.

L’8 agosto 1924 il Ministero della Guerra - a firma del ministro Di Giorgio - decretava che Aldo Torsoli di Pergentino era autorizzato a fregiarsi della Medaglia istituita a ricordo della guerra 1915-1918. In seguito la burocrazia dette luogo ad un ulteriore decreto simile (e infatti i documenti sono due), ma con il cognome scritto con la ‘z’ invece che con la ‘s’ (17 febbraio 1926, post mortem, a firma Mussolini).

Nel bacio della Patria che tutti i trionfi sovrasta, Aldo morì consumato dalla malattia a Monticiano nell’aprile 1925 e fu tumulato nella stessa tomba dove nel dicembre 1953 avrebbe trovato posto anche la Mamma Luisa.
L’anno precedente (1924) il suo nome era stato dato dal fratello maggiore Alberto, sposato nel 1923 con Luigia Rossi (†1981) - e unico in famiglia realmente informato dell’inesorabilità delle lesioni subite dal fratello - al primo figlio nato.
Questi diventerà poi medico a Pisa, a soli 32 anni conseguirà la prima libera docenza e, dedicatosi alla ricerca, diverrà professore universitario di fama internazionale, pioniere della gastroenterologia e per questo universalmente celebrato.


LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE I-1

Quando Desiderio, re dei Longobardi, fu sconfitto da Carlo, re dei Franchi, nel 774, per tutti in Italia bastava e avanzava il semplice nome. Tra il Mille e i secoli XIII-XIV la crisi del feudalesimo e il conseguente rafforzamento delle principali città - i Comuni - determinarono fenomeni di immigrazione interna dai villaggi ai grossi centri, movimento di beni, una più intensa partecipazione alla vita pubblica, la nascita di nuovi rapporti economici. Soltanto allora si sentì il bisogno di identificare esattamente gli individui con l’aggiunta di un’“etichetta “ al nome.
Il processo di fissazione del cognome si concluse nel nostro paese in epoca rinascimentale, quando il casato divenne immutabile per legge e trasmettibile di generazione in generazione. Oggi in Italia si registrano ben 280.000 cognomi differenti
I cognomi italiani possono derivare da nomi personali di origine latina, germanica, greca, ebraica; dai nomi di formazione medievale e dai nomi letterari o storici tratti da fonti classiche e dai romanzi cavallereschi. Molti risultano da soprannomi che spesso precisano il mestiere di chi li portò originariamente. Diffusi, specie nel meridione, i patronimici o matronimici preceduti dalla preposizione di o dagli articoli determinativi lo, la.
Non mancano i cognomi che rispecchiano l’aspetto fisico o il carattere dei nostri antenati. Anche i paesi d’origine e i luoghi di provenienza e di residenza costituivano un ottimo elemento di identificazione. Un buon terzo dei cognomi italiani deriva da etnici o toponimi.
Una buona partenza nella ricerca delle origini familiari può essere un colloquio con i membri più anziani della famiglia che spesso consente di risalire abbastanza indietro nel tempo. Per il cognome ‘ Torsoli ‘ possiamo dire che esiste una tradizione orale ripetuta dal colonnello Alberto T. che avrebbe fatto provenire gli antenati dal territorio grevigiano verso il sec. XVII.


La provenienza sarebbe stata dalla borgata di TORSOLI presso Lucolena nel territorio di Greve in Chianti, dove - cosa importantissima - ancor oggi il cognome sussiste.
Possiamo considerare questi due dati e cioè la tradizione orale e il cognome ancora presente in quel territorio, un indizio rilevante.

Non lontano da Greve in Chianti, sotto il Monte Domini, in una specie di conca sovrastata da monti celebri per folti castagneti ove ebbe i natali Michele di Lando capo della rivolta detta ‘dei Ciompi’ e poi Capitano del Popolo a Firenze, sorge il piccolo centro di LUCOLENA (m 542) di circa un migliaio di abitanti. Vi si giunge da Firenze percorrendo la Chiantigiana fino a Strada (km 14) poi, dopo il paese, la trasversale che va a Figline. Si percorrono dodici chilometri attraverso Cintoia, Passo della Panca, Imbuto, Dudda. Dopo Dudda si devia a destra superando un ponticello e si percorrono tre chilometri in salita fino a Lucolena.
Il borgo ha bei rustici e villette e una gran pieve romanica, Santo Stefano, trasformata nell’ ‘800, che fa parte del piviere di Gaville. All’interno della chiesa due affreschi del ‘500 che rappresentano San Benedetto e San Giuseppe giovane.

L’abitato è collocato presso la sommità del Monte Domini - sovrastato questo da una grande Croce in ferro visibile dal Chianti e dal Valdarno con i resti della secolare chiesa. Vi trova origine il torrente Cesto che scorre fino a Figline Val d’Arno. Lucolena si trova fra le soppresse Badie di Montescalari e Montemuro e sul bivio delle strade comunali provenienti da Radda e da Greve. Queste strade si congiungono proprio qui prima di scendere verso Gaville e Figline.
Nei dintorni i ruderi del Castellaccio, la Badia di Montemuro e i resti della Badiaccia.

Il più antico documento che parla della località è una pergamena dell’ottobre 929. Fu scritta a San Cristoforo e tratta della cessione di un appezzamento di terreno in località ‘Lavaclo’ nel piviere di Cintoia. Altri documenti citano Lucolena per l’anno 1005 e 1008. Per la cronaca, un conte de’ signori di Lucolena fu menzionato alla celebre pace di Firenze del 1280 tra guelfi e ghibellini, quella famosa pace curata dal cardinal Latino.

Contro il borgo più volte si sfogò la rabbia dei ghibellini che infine lo saccheggiarono e lo bruciarono il 2 giugno 1302.
Esiste anche una lettera del 1304 in cui il castellano della torre di Lucolena scrive alla Signoria dichiarandosi pronto ai cenni del governo in occasione della rivolta dei Bardi contro l’ordine e la libertà della patria. E’ interessante notare come Lucolena conserva ancor oggi la forma dell’antico castello.

Motivo di richiamo nella località sono le fiere del lunedì dell’Angelo, del 1° lunedì di agosto e della 2a domenica dello stesso mese. La 2a domenica di ottobre si tiene l’ormai tradizionale Festa dei Marroni.

Da Lucolena attraversando Dimezzano si raggiunge la borgata di TORSOLI che si trova a circa 18 chilometri a sud-est di Greve di cui è frazione. Siamo alti sul mare 691 metri e ci troviamo circa due chilometri a nord di Badiaccia Montemuro ove convergono i limiti delle provincie di Firenze, Arezzo e Siena sul pendio orientale dei monti e del valico che divide il Chianti senese da quello fiorentino in località detta Morellino. Sullo sfondo nord-ovest la maestosa catena del Pratomagno. In direzione sud con i suoi 892 metri il Monte San Michele è la quota più elevata del Chianti.

Le origini della borgata possono essere etrusco-romane. Il nome, dal punto di vista filologico, dovrebbe riferirsi alla dea pagana Torsa divinità etrusca protettrice delle alture e dei valichi.

Nel XIII secolo veniva nominata la chiesa di S. Gaudentii de Tarselle che, almeno nella radice, riprendeva quell’antico vocabolo.
Secondo Carlo Baldini c’è chi afferma che in località ‘Il Morellino’ (o ‘Morettino’), passo che divide la Val di Pesa da quella del torrente Cesto, si trovasse un tabernacolo dedicato alla dea Torsa, divinità pagana dalla quale deriverebbe il nome della località pronunciato con la ‘o’ aperta. Vi transitava la consolare Via Cassia già strada etrusca.

Ora, quest’idea del tabernacolo etrusco ci pare del tutto peregrina visto che in nessun altro luogo l’archeologia ha potuto rinvenire reperti di tale valore - sarebbe un fatto eccezionale, un caso più unico che raro! - e riportiamo questo autore solo per pluralità d’informazione.

Una successiva interpretazione per la quale il toponimo deriverebbe dall’espressione latina Turris soli (‘Torre al sole’) sembrerebbe una di quelle ingenuità filologiche abbastanza frequenti nella nostra toponomastica create ad arte con l’intento di far risalire ad epoca romana molte località le cui origini si erano perse nella notte dei tempi regalando loro una sorta di alone di nobiltà o comunque una paternità non potuta provare altrimenti. Questa interpretazione riferimmo nella raccolta di dati e notizie del 1967. Ci fu suggerita in totale buona fede dal parroco di San Gaudenzio a Torsoli, don Quintilio Billi, oggi defunto. Tuttavia la derivazione non ci pare ragionevolmente sostenibile e, avendo approfondito l’argomento anche dal punto di vista filologico, propendiamo senz’altro per quella da etimo etrusco.

Dal nome Torsa, si spiegherebbe anche, e finalmente, perché la pronunzia locale sia con la prima ‘o’ aperta come ‘tòro’ anziché con la ‘o’ stretta di ‘torre’.
A lungo andare tuttavia, almeno nel ramo senese, il cognome venne pronunciato con la ‘o’ stretta favorita dalla pronuncia del vernacolo e dall’allontanamento dal luogo. Si tratta di evidente distorsione, consolidata col trascorrere del tempo.

Stabilire con certezza l’origine del nome è comunque cosa non facile. Infatti i primi documenti storici a noi pervenuti che nominano la località di Torsoli non sono di epoca romana, ma risalgono all’ XI secolo. Sono due atti di donazione appartenenti alla Badia a Passignano che rammentano beni posti in ‘ Torsole ‘ e facenti parte del Piviere di San Romolo a Gaville o Cortule. Il primo di questi documenti fu scritto in Pietrafitta il 27 luglio del 1050. L’altro fu scritto il 15 giugno 1080 nel distretto di Greve. Un altro documento cita la località per l’anno 1176.
Il Repetti nel suo Dizionario storico-geografico della Toscana cita :
TORSOLI, o TORSOLE in Val di Greve.- Casale con chiesa parrocchiale (S. Gaudenzio) nel piviere di Gaville, Comunità, Giurisdizione a circa tre miglia toscane a scirocco di Greve, Diocesi di Fiesole, Compartimento di Firenze.
Risiede presso il giogo dei monti che separano le acque del val d’Arno fiorentino da quelle della fiumana di Greve, sopra le sorgenti del torrente Cestio di Gaville.
Due istrumenti del sec. XI appartenuti alla Badia di Passignano rammentano questo luogo nel piviere di S. Romolo a Gaville o Cortule; il primo dei quali fu scritto in Pietrafitta il 27 luglio 1050, e l’altro il 15 giugno 1080 nel distretto di Greve presso il Castel di Torsoli nel piviere di S. Romolo in Cortile. (ARCH. DIPL. FIOR. Carte citate) – Vedere GAVILLE.
La parrocchia di S. Gaudenzio a Torsoli nel 1833 contava 129 abitanti.



In località Monte Castellare, più in alto di Torsoli, c’era una torre, detta in seguito ‘Torraccia’ e più su ancora i resti, visibili fino a qualche decennio fa, e non è escluso che l’idea di un castello e di una torre possa aver ‘aiutato’ il riferimento del toponimo alla radice ‘turris‘ in un’epoca in cui prevaleva il culto della romanità.
Nulla sappiamo della storia di questo castello che per essere situato in quelli che furono i feudi dei conti Guidi potrebbe essere stato costruito da quella nobile famiglia. Dei fabbricati difensivi, torre e castello, si hanno notizie, come abbiamo appena detto, fino dagli anni 1050 e 1080. E’ appunto da tali atti che i conti Guidi risultano come feudatari riconfermati dai diplomi imperiali. Infatti nel 1220 tutta la zona che comprendeva Dudda, Torsoli e altri castelli venne confermata da Federico II sotto la giurisdizione imperiale. Cosa sia avvenuto dopo di allora poco si sa.
Sia la torre, che serviva per avvistamento, sia il castello, che era per difesa, durante la seconda invasione aragonese del 1478 furono dati in consegna dalla Signoria di Firenze al Commissario per il Chianti, Pier Giovanni Ricasoli, con le munizioni necessarie alla guarnigione.
Successivamente i Capitani di Parte Guelfa stanziarono 30 lire annue per il mantenimento della torre fino al luglio 1520; poi fu affidata ai capi famiglia di Torsoli e Lucolena. Per il restauro della torre stanziarono i medesimi Capitani lire 108.
Molti dei numerosi castelli della podesteria furono in seguito trasformati in ville e fattorie. Altri persero i caratteri originari. Tra questi Collegalle, Convertoie, Rignana, Torsoli e Linari.

Fin da tempi antichissimi Torsoli fu località di transito e di sosta; essa si trovava infatti sul percorso da Greve a Radda in Chianti, percorso utilizzato da chi partendo da Firenze voleva arrivare a Siena e cadde in disuso solo quando fu aperta una nuova strada più invitante e facile che conduceva a Radda (o a Castellina in Chianti) passando per Panzano. L’antica bottega di generi alimentari dove si erano rifocillati per tanti anni vetturali e viaggiatori continuò ad esistere fino al 1840 e si trovava presso la chiesa. L'ultimo bottegaio pare essere stato un certo Focardi.

A Torsoli, per quanto piccolissima borgata, si trovava uno ‘spedale ‘ dedicato a San Macario Abate e posto nella casa colonica accanto alla chiesa parrocchiale, che era chiamata spedale, appunto. Aveva lo stemma del Bigallo sia alla casa sia ai confini del podere e del bosco. La presenza di questo stemma nel territorio è di fondamentale rilievo sia storico sia giuridico. Infatti quando parliamo di stemma del Bigallo intendiamo qualcosa di più di un comune stemma araldico come l’uomo d’oggi potrebbe pensare. In effetti occorre riportarsi all’epoca per valutarne tutta l’importanza. Si tratta dell’insegna del Magistrato dei Capitani di Santa Maria del Bigallo al cui al cui zelo e carità cristiana fu affidata la soprintendenza e direzione di tutti gli Spedali del Granducato di Toscana.
Proprio nel caso di Torsoli è facile avere un’idea di quella che fu la capillare distribuzione sul territorio di questi ‘spedali‘ che, a nostro parere, segnano un capitolo di grande rilievo nella storia dell’assistenza ai malati bisognosi e contribuiscono notevolmente alla collocazione della Toscana granducale fra gli Stati più moderni nell’ Europa del suo tempo.

Anche un fosso è denominato ‘Borro di Torsoli ‘. Esso nasce da impluvi sulle pendici settentrionali del Monte San Michele in vicinanza delle case segnate sulle carte topografiche con la quota 850. Il borro scorre ad oriente della borgata e va poi ad alimentare le acque del borro del Cesto.
A questo proposito non sarà inutile ricordare che tutta l’acqua che serve al fabbisogno delle popolazioni di Greve in Chianti e di Panzano nasce dalle sorgenti nei boschi di Torsoli. L’acquedotto fu costruito negli anni 1928-1929.
La borgata è caratterizzata da una chiesa parrocchiale collocata in un ampio pianoro panoramico lungo la strada. Essa è dedicata a San Gaudenzio monaco, abate, confessore, eremita la cui festa viene solennemente celebrata il 26 novembre d'ogni anno.

Già abbiamo detto come la chiesa venisse citata fin dal sec. XIII come ‘ S. Gaudentii de Tarselle‘ in un documento sulle decime, ma essa risale almeno al mille: si possono vedere ancora le antiche strutture della chiesa e della poderosa torre campanaria. Lo stile iniziale romanico subì tuttavia modifiche settecentesche con intonaci sia all’interno sia all’esterno.
La parrocchia di Torsoli viene ricordata in un documento del sec. XVI come San Godenzo a Torsoli secondo una variazione abbastanza comune del vernacolo arcaico toscano che tendeva a trasformare il nome Gaudenzio in ‘Godenzo’. Il documento riguarda i popoli della Podesteria di Greve.

La parrocchia è oggi ridotta a poche anime e appartiene alla diocesi di Fiesole di cui è Vescovo fin dal 1981 mons. Luciano Giovannetti. L’attuale parroco don Giuliano Morelli, succedette al defunto don Quintilio Billi ed è titolare anche della parrocchia di Badiaccia Montemuro.
Alla Chiesa è annessa la canonica. L’una e l’altra sono in ottime condizioni. Il già citato don Billi - intelligente e fattivo - fin dagli Anni ’60 effettuò numerosi miglioramenti ai fabbricati del beneficio parrocchiale (pod. ‘La Buca’) restituendo loro dignità estetica e funzionale e dotandoli di tutte le comodità.

Abbiamo una raccolta di notizie, custodita nell’archivio della parrocchia e compilata da Bartolomeo Torsoleschi, rettore della Chiesa di Torsoli. Essa è datata 1609. Altri documenti ricordano come nel 1446 essa avesse 200 anime. Quattro secoli dopo, nel 1833, la popolazione era ridotta a 129 persone. Per la precisione constatiamo che i registri delle Cresime hanno inizio dal 1774; quello dei Matrimoni dal 1560; quello dei Morti dal 1632. Il registro dei Battezzati ha inizio nel 1926 anno in cui venne collocato il Fonte battesimale; gli stati delle anime hanno inizio nel 1624.
E’ interessante fra gli altri un documento, datato 16 ottobre 1850 e scritto in San Casciano Val di Pesa dal perito Ing. Antonio Sodi, nel quale si rappresentano al delegato del Governo di S.A.I. e R. in San Casciano, su richiesta dello stesso, le condizioni dell’edificio della Chiesa e viene richiesto l’intervento del Granducale Governo per l’esecuzione di alcuni lavori la cui spesa ammonta a L. 3.548,08.
La fronte della chiesa è volta a ponente. La canonica si trova sulla destra della chiesa per chi ne guarda la facciata. Canonica e chiesa sono congiunte da un ampio e lungo andito.
Di fronte a questi edifici si trovano due case già coloniche. Sulla destra di chi guarda la facciata della chiesa esisteva un vecchio pozzo coperto da un caratteristico tetto di tegole; esso fu disfatto fino a fior di terra e coperto con lastroni e mattoni dal parroco don Gino Casini verso il 1934.

Fanno parte del beneficio parrocchiale anche molti boschi all’intorno. Fra i più vasti della frazione citiamo i boschi detti ‘Stallaccia’, il ‘Cortolino’, il ‘Castellare’, la ‘Frosonaia’, la ‘Fora’, ma ve ne sono anche altri.

La Chiesa di San Gaudenzio a Torsoli contiene alcuni dipinti di pregiata fattura talvolta trasferiti temporaneamente nel capoluogo toscano per comparire in esposizioni colà organizzate.
Al primo altare a sinistra entrando, il visitatore nota subito una tavoletta dipinta. E’ un lavoro fine ed accurato rappresentante la Madonna con due terzi di figura seduta e con il Bambino in piedi sulle ginocchia della Madre. La tavoletta è centinata a semicerchi nella parte superiore. Quest’ opera di scuola fiorentina del sec. XVI è attribuita alla maniera del Vasari (cm 90 x cm 60).

Sempre al primo altare è ubicato un dipinto su tela del Carocci (m 3 x 2,15) raffigurante i santi Barnaba e Francesco con vari angeli. Pare piuttosto mediocre.
Sull’altar maggiore è posto un dipinto su tela (m 2,20 x m 2,75) raffigurante la Vergine con il Bambino in braccio, con San Giovanni Evangelista, San Sebastiano, San Gaudenzio, San Macari e diverse figure di angeli.
All’altare di San Domenico abbiamo un altro dipinto su tela raffigurante la Vergine del Rosario con San Domenico, San Giuseppe e le anime del purgatorio (m 3 x m 4,15).
Proveniva dalla Chiesa di San Gaudenzio a Torsoli anche la bella scultura raffigurante una Madonna col Bambino ora conservata nel Museo di San Francesco a Greve in Chianti. E’ questo uno dei cinque musei che costituiscono la moderna rete del sistema museale del Chianti fiorentino.

La scultura in stucco (cm 65 x 45 x 10), che ha quasi perduto completamente la policromia originale, ripropone il tema della ‘Madonna col Bambino’ nell’accezione intimistica propria di molte opere del primo Rinascimento fiorentino, descrivendo il tenero gesto con cui la Madre attira a sé il Figlio e il profondo legame affettivo che li unisce. I due volti, però, sebbene uniti dall'abbraccio, non si guardano, rimanendo anzi assorti come nella consapevolezza della natura non terrena del loro rapporto. Il gruppo poggia su di un basamento dello stesso materiale, che reca alle estremità due stemmi con scudo a mandorla dalla superficie liscia.
Il prototipo di quest'opera è la Madonna col Bambino in stucco policromo del Museo Nazionale del Bargello, riferito alla bottega del Ghiberti e successivamente riprodotto in numerose repliche. Ancora influenzato dai modi tardogotici si rivela l'autore della scultura di Torsoli, che dopo una prima attribuzione alla bottega dello stesso Ghiberti, è stata assegnata al fiorentino
Nanni di Bartolo, artista formatosi su Donatello ma caratterizzato oltre che da una personale vena malinconica, da inflessioni ed eleganze ritmiche legate alla tradizione prerinascimentale.
La datazione al secondo decennio del secolo XV, avanzata sulla base del confronto stilistico con altre opere, è giustificata dal fatto che la scultura non presenta ancora i caratteri di sintesi formale che sono propri delle opere più tarde: le fattezze della Madonna appaiono ancora in linea con le aggraziate sembianze delle Vergini ghibertiane, così come allo stesso ambito stilistico richiama il velo, panneggiato in pieghe fluenti.
Presso la Chiesa, ma al di là della strada, un piccolo monumento molto significativo - composto da un cippo in pietra e da una pala d’elica d’aereo posta verticalmente sul prato che lambisce i boschi - ricorda il tragico incidente aereo avvenuto il 10 luglio 1982 nel cielo di Torsoli. Durante un’operazione di protezione civile un velivolo della 46° Brigata Aerea precipitò per un guasto al motore trascinando con sé i quattro componenti l’equipaggio.
Recita la targa ricordo :

SU QUESTO CIELO IL 10 LUGLIO 1982
SUL VELIVOLO “LUPO 84”
GLI AVIATORI DEL 98° GRUPPO DELLA 46a AEROBRIGATA

Ten. Col. Pilota DOMENICO FANTON
Cap. Pilota MAURIZIO MOTRONI
M.llo Marconista FURIO COLAIACOMO
Serg. Magg. EMB ALESSANDRO COSIMI

SACRIFICARONO LA PROPRIA VITA
DURANTE IL COMPIMENTO DI UNA MISSIONE DI PROTEZIONE CIVILE.
10 LUGLIO 1984 - IL 98° GRUPPO E GLI AMICI DI TORSOLI



Dopo vent’anni, il luttuoso episodio veniva solennemente commemorato a Torsoli con il gemellaggio fra il 98° Gruppo e la borgata. Una modesta targa in metallo veniva aggiunta in tale occasione sul medesimo cippo votivo:


A CELEBRAZIONE DEL VENTENNALE DELL’INCIDENTE DI VOLO DEL LUPO 84, CADUTO IN UN’ OPERAZIONE DI PROTEZIONE CIVILE NEI CIELI DEL COMUNE DI GREVE IN CHIANTI, SI SUGGELLA IL GEMELLAGGIO TRA IL 98° GRUPPO DELLA 46a BRIGATA AEREA DI PISA E LA FRAZIONE DI TORSOLI.
TORSOLI 10.7.2002


Rimandiamo ad altra occasione più accurate indagini sui toponimi indicati qui di seguito : San Lorenzo a Torsoli, Santa Maria Nuova (San Gaudenzio a T.), San Michele de’ Monti (San Godenzo a T.), Villa Giusti (San Gaudenzio a T.), Casa Carlo, Casa Castagnoli (ci sono due villette con due case coloniche), Fonte a Beccastrino, Casa Montelfi, San Salvatore a Monte Domini.


Circa duecento metri a nord-ovest della chiesa di Torsoli ci sorprende una bella villa con ampio parco. Tale costruzione di ottima fattura e recante sulla facciata lo stemma in terracotta della nobile famiglia fiorentina Capponi, è denominata ‘La Carbonaia’ (m 686). Appartenne successivamente ai Torsoleschi, Bassini, Remedi, Babbini, Baldinotti, Capponi (che aggiunsero lo stemma gentilizio anzidetto). Oggi la Villa appartiene alla famiglia Pagni di Milano nella persona del figlio dell’Ing. Alessandro che fu, tra l’altro, Presidente della Salmoiraghi negli anni ‘60 e ‘70 e che lo zio Aligi conobbe.

L’edificio come oggi si presenta è relativamente recente, ma esso fu costruito certamente su altro di data più antica. Della ‘Carbonaia’ infatti si parla già nel 1250. Le sue condizioni attuali sono ottime sotto tutti i riguardi nel pieno rispetto delle esigenze estetiche e funzionali. La villa è dotata di cappella gentilizia e fino a quando le campagne restarono ben popolate vi si celebrava la messa domenicale con ampia partecipazione di popolo.

In questa cappella esisteva una campana dedicata a Santa Cristina. Verso il 1875 ne fu tentato il furto, ma il tentativo fu sventato. Dopo di ciò la campana, che infatti ora si trova sul campanile della Chiesa di San Gaudenzio, fu donata alla parrocchia non si sa bene da quale proprietario. Diciamo per inciso, e qui citiamo la testimonianza dell’antico parroco don Quintilio, che le altre due campane della chiesa furono fuse proprio a Torsoli.
Al di là della strada, di fronte alla Villa, una antica casa di stampo colonico reca sulla porta lo stemma Capponi in ceramica colorata.
Secondo la testimonianza del col. Alberto T. che, sia detto per inciso, ricordava a memoria i nomi di tutti gli antenati del ramo della Val di Merse fino ad un Giambattista nato circa il 1790 - il ceppo della famiglia risiedé, come abbiamo già accennato all’inizio, per lungo tempo nella patria di origine - cioè nel grevigiano - finché nel secolo XVII, appunto, un ramo si trasferì nel senese.

E infatti il nostro cugino Francesco Torsoli nel corso delle sue personali accurate ricerche ha potuto reperire il raro cognome esistente fin dal 1676 nel Comune di Montieri che al tempo contava 184 famiglie per un totale di 842 anime. “Purtroppo” - egli ci dice - “non abbiamo alcun elemento per stabilire in quale epoca questi antenati si trasferirono a Monticiano”.
Ci viene spontaneo notare come sia il borgo di Torsoli che quello di Montieri, per non parlare di Monticiano nei tempi passati, vivessero prevalentemente di un’economia boschiva legata al taglio delle piante, alla lavorazione e al trasporto del legname, alla preparazione del carbone di legna oltre che alla raccolta delle castagne. Queste erano le attività più diffuse. Potremmo ipotizzare che il trasferimento di parte della famiglia da una località all’altra, e cioè dal chiantigiano alla Val di Merse, fosse facilitata anche dal sussistere dello stesso tipo di economia forestale. Infatti la famiglia, per quanto si ricordi, non fu mai impegnata in attività agricole (coltivazioni o allevamento) o pastorali o commerciali (edilizia, mulini, ecc.), ma si mantenne quasi sempre nell’area di attività artigianali libere (calzolai, maniscalchi, seggiolai, barbieri) alle quali stagionalmente si inserivano la raccolta di castagne, tipica dell’area, e lavori temporanei in agricoltura (raccolta delle olive, vendemmia) o minerari o boschivi esclusa, quasi sempre, la commercializzazione di prodotti.

Come fu rilevato giustamente dal Proposto nell’omelia tenuta in occasione del matrimonio di Nicoletta T. con Giuseppe Gallori (1959), i due cognomi, Torsoli e Gallori, possono essere considerati fra i più antichi di Monticiano ancora esistenti. Per certo derivarono dai Torsoli della Val di Merse quelli poi esistenti nel grossetano (Sticciano di Roccastrada e Campagnatico, oggi ad Arcidosso, Campagnatico, prov. di Grosseto). Essi discendono da Giuseppe, Santi e Teofilo figli di Rinaldo, fratello di Alceo. Questi due ultimi [Rinaldo e Alceo] erano figli di Antonio nato verso il 1818. Una ricerca informale fra questa parentela ha evidenziato anche singolari somiglianze nei tratti somatici dominanti fra i membri dei vari rami.

Gli attuali elenchi telefonici nazionali (2005) evidenziano un totale di 34 titolari di questo cognome in maggioranza (85,29%) dimoranti in Toscana. Ad essi si devono aggiungere quelli appartenenti all’importante ramo di sicura origine monticianese residente ormai da circa un secolo nel Principato di Monaco e di cui fra poco parleremo.
Come ben ricorda l’amico di famiglia Leonardo Calossi, tenente della Guardia di Finanza e valente scrittore, già intrepido combattente e reduce dai campi di prigionia della Germania, oggi notissimo e benvoluto anche per aver voluto descrivere magistralmente molte vicende e personaggi della sua sempre amata cittadina di Monticiano - oltre ad altri fatti personali sofferti durante il suo servizio in tempo di guerra - Pergentino e Luisa (sposata nel 1890, nata Franci, figlia di Romano e sorella di Luigi e Giuseppa cg. Ciompi) vissero il periodo della prima guerra mondiale in costante trepidazione per i familiari che erano al fronte esposti in prima linea ad ogni genere di pericolo.
Infatti, oltre ai quattro figli Alberto, Alighiero, Aldo e Azzurro, - altri due figli Alfredo e Aligi non erano ancora in età di leva - si trovavano, fra i combattenti anche Tullio, fratello minore di Pergentino e Antonio, suo nipote, figlio dell’altro fratello minore Andrea (detto ‘Drea del Picchiòli’).

Alceo (figlio di Antonio), sposato in prime nozze con Lavinia Lodovici ebbe Pergentino, e in seconde nozze con Caterina Barazzuoli, ebbe altri due figli: Andrea (detto ‘Drea’) e Tullio.
Pergentino aveva appreso dal padre a realizzare con le sue mani le tradizionali sedie toscane per il cui rivestimento usava il falasco (detto a Monticiano ‘stiancia’) pianta palustre raccolta direttamente sulle rive della Feccia e della Merse. Infatti Alceo, nato nel 1842 al tempo del granduca Leopoldo II, era un artigiano seggiolaio, ometto poco saldo sulle gambe, un po’ claudicante e con la barba bianca sempre incolta. Raccontava di non aver mai viaggiato in treno, ma di averne visto uno con i propri occhi trainato da una sbuffante locomotiva. Ora occorre rifarsi ai tempi. La linea ferroviaria Siena-Empoli fu inaugurata solo nel 1856; essa fu l’ultima grande opera pubblica della Toscana granducale prima dell’Unità d’Italia.
Alceo aveva imparato a suonare il violino e la tradizione familiare lo vuole in quest’arte non facile, abile specialmente nei brani musicali ballabili. A proposito del violino Leonardo Calossi commenta “Come ne fosse venuto in possesso e come avesse imparato a suonarlo nessuno lo ha mai saputo”.

Pergentino aveva anch’egli grande orecchio musicale, ma aveva preferito imparare a suonare il clarino e per molto tempo fece parte della banda musicale di Monticiano. Anche il Foglio matricolare riporta che la sua arte era quella di Musicante. Una fotografia che risale al periodo del suo servizio militare di leva, e cioè nel 1886-88, lo ritrae con questo strumento e nella divisa azzurra-grigia con chepì e daga (mod. 1871) in uso nell’ultimo quarto del sec. XIX.
Nato il 17 marzo 1866 a Monticiano, Mandamento di Chiusdino, Pergentino fu arruolato come soldato di leva di 1a categoria del Distretto di Siena il 28 agosto 1886. Chiamato alle armi l’8 novembre successivo, raggiungeva il suo 75° reggimento fanteria, Brigata 'Napoli', il 26 novembre.
In data 24 aprile 1887 fu “designato” per il servizio ridotto a due anni invece di tre (il triennio di leva era stato previsto a partire dal 1875 con legge del ministro Ricotti), facilitazione che veniva concessa ad una certa aliquota di militari di leva per motivi… di bilancio nazionale.
Venne congedato il 23 agosto 1888 con dichiarazione di buona condotta.
Il 31 marzo 1892 fu richiamato alle armi per istruzione. Giunto il 16 agosto e mandato in congedo illimitato il giorno 31 dello stesso mese. Non siamo stati capaci finora di stabilire in quale periodo il nonno fu trasferito nell’ 89° Battaglione, 3a Compagnia così come si vede in una rara fotografia e come è anche confermato dal Foglio matricolare alla voce “Rettificazione”… ma senza indicazione di data. Le mostrine non sono quelle rettangolari bianche con una fascia orizzontale viola del 75° reggimento, ma si sono trasformate in fiamme ad una punta. Essendo la fotografia in bianco e nero non è neppure possibile ipotizzare qualche colore che potrebbe darci lumi in proposito (Artiglieria? Genio?). D’altra parte la numerazione per ‘battaglioni’ potrebbe far pensare alla Milizia Territoriale…. Ma il nonno vi fu iscritto solo dal 1899… e probabilmente non vi prestò mai servizio effettivo… Lasciamo aperto il quesito…
Iscritto nella Milizia Mobile del Distretto di Siena il 15 dicembre 1895.
Infine fu effettivo al Deposito del Reggimento il 31 marzo 1898; e poi nella Milizia Territoriale (dal 15 giugno 1899).
Prosciolto definitivamente dal servizio il 31 dicembre 1905.
Pergentino fu sempre un gran lavoratore e, in periodi di contingenze economiche particolarmente sfavorevoli per Monticiano non esitò, con grande decisione, a trasferirsi, sia pure per brevi periodi, in Francia dove i salari erano più remunerativi oppure in Maremma per lavori stagionali secondo un’abitudine piuttosto diffusa nel tempo. Si racconta a questo proposito che una volta si recò Oltralpe in estate appunto per trovare lavoro presso una ditta dove era già stato in anni precedenti e dove, al momento, lavorava il giovanissimo figlio Alberto, quattordicenne. Il titolare lo conosceva e volendo giocargli un piccolo scherzo gli disse pressappoco così: “Caro Pergentino, siamo contenti di vedervi. Purtroppo non abbiamo lavoro per voi, ma trattandosi di una semplice visita possiamo ospitarvi per qualche giorno”. Al buon uomo mancò il respiro sentendo quelle parole. Aveva tanto sperato in un lavoro col quale poter provvedere alla moglie e ai numerosi figli e quelle parole lo ferivano fin nel profondo dell’anima. Un nodo gli strinse la gola. Ma fu solo un attimo. Dignitosamente trovò la forza di rispondere con apparente noncuranza e molta fermezza: “Chi ha parlato di lavoro? Per ora, non m’interessa. Non ne ho proprio bisogno. Non sono venuto fin qui per lavorare, ma solo per far visita a mio figlio e sapere se sta bene. E’ la prima volta che si allontana da casa e sua madre è sempre così preoccupata per lui!” A quelle parole così dignitose e ben decise il titolare non ebbe animo di continuare più a lungo la cèlia e, quasi mortificato per aver fatto quella battuta di cattivo gusto, abbracciandolo gli disse: “Basta, Pergentino, voleva essere una burla! Di lavoro qui ce n’è per tutti, ma soprattutto per voi che conosciamo per onestà e profondo senso del dovere! E per voi di lavoro ce ne sarà sempre!!” Quest’episodio valga per rappresentare un uomo tanto modesto quanto schivo di carattere, ma mai disposto a cedere in dignità e decoro.

Fra i tanti lavoratori che si recarono all’estero per lavori stagionali (in genere da gennaio a giugno) ve ne furono anche di quelli che, più coraggiosi forse, decisero poi di trasferirvisi definitivamente avendo trovato, o sperando di trovarvi, una buona sistemazione. Molti si trasferirono in Provenza e a Montecarlo.
Fra quelli che presero la non facile risoluzione vi fu Angelo Torsoli che si stabilì nel Principato di Monaco all’inizio del secolo XX.
Aveva prima lavorato in Corsica con un gruppo di connazionali. Fu padre di Francesco detto ‘Cecco de Linge’. Questi sposò Rosa Russo. Ebbero numerosi figli: Angiolina (nata l’ 1 gennaio 1912, cg. Giorello); Florent (cg. con Marie); Giuseppina (cg. con Pietro Di Marco); Anna († 2006 - cg. con Tonino); Giovanni (che risiede ad Albenga).
Numerosi sono i discendenti di questo benemerito ramo familiare che risiedono a Montecarlo ancora oggi.
Diciamo subito che dalla già citata Angiolina, coniugata con Attilio Giorello nacque Florent (n. 22.2.1934). Da Florent Giorello sposato con Draghiza Jugovich (nata in Croazia) nacque Natia a cui va l’indubbio merito di aver ricostruito con passione ammirevole la vicenda del ramo familiare oltre che aver ricercato e rinnovellato, dopo circa un secolo, i rapporti con i parenti esistenti nel senese.

Natia Giorello, (n. 24.11.1971) giovane imprenditrice residente oggi a Montecarlo, parla correntemente varie lingue avendo, tra l’altro, frequentato brillantemente il liceo linguistico nella sua città e, molto interessata alle bellezze storico-artistiche italiane oltre che alle radici familiari, viene in visita in Toscana ogniqualvolta la sua impegnativa attività glielo consente, entusiasta di ritrovarvi vari affezionatissimi parenti.
Approfittiamo dell’occasione per ricordare subito Andrea Torsoli, detto ‘Drea del Picchiòli’ (come già detto fratello del nonno Pergentino, nato dalle seconde nozze del padre con Caterina Barazzuoli), che per lungo tempo fu il lampionaio di Monticiano incaricato dal Comune. Dell’altro fratello del nonno Pergentino, Tullio, (figlio egli pure di Caterina), parleremo poi annoverandolo fra i caduti in Albania del primo conflitto mondiale. Apparteneva al 218° Battaglione della Milizia Territoriale.


“All’imbrunire di ogni sera [Drea] si metteva in spalla la scala in legno a pioli, prendeva la stagnola del petrolio per il rabbocco e gli altri arnesi e faceva il giro del paese per accendere i pochi lumi posti sulle cantonate.”

Infatti prima dell’avvento della luce elettrica il paese veniva illuminato da lampioni a petrolio (a “canfino” come li chiamavano gli anziani).
Anch’egli fu un abile artigiano seggiolaio che incrementava il reddito familiare con l’incarico di occuparsi dei lampioni pubblici, incarico che tenne fino al 1926 quando anche a Monticiano fu ultimato, certamente con molto ritardo rispetto ad altri centri abitati, l’impianto per l’illuminazione elettrica, evento che addirittura trasformò la vita nel paese e lo proiettò, ahimè, ormai troppo tardi!, nell’era moderna.
‘Drea’ fu padre di Antonio morto in guerra nel settembre 1918 presso Vobarno, come vedremo più avanti.


Luisa, nonostante il suo da fare, nel tempo di guerra si premurava di visitare le madri e le mogli - tutte conosciute da sempre nel paese natìo – cui era pervenuta la tremenda notizia della scomparsa dei loro cari congiunti cercando in ogni modo di far loro coraggio e di sostenerle nella dura prova. Ciò continuò a fare anche dopo la morte di Alighiero.
Entrambi i coniugi Torsoli - Luisa e Pergentino - furono veramente di ferrea tempra e subirono ogni avversità con rassegnazione, fortezza d’animo e grande dignità che, dobbiamo dirlo, fa oggi onore non solo a loro, ma a tutta la Famiglia e alla cittadina natìa.
Ricorda Leonardo Calossi: “insieme avevano affrontato duri sacrifici e ristrettezze, sopportato sventure, lottato con saldezza morale per quella non comune famiglia”. Aggiungiamo che essi furono grandi patrioti e piansero Alighiero e Aldo con la rassegnazione degli animi forti. Straziati nel cuore non mancarono mai di esporre con orgoglio il Tricolore sulla loro abitazione in occasione di festività e celebrazioni nazionali. Furono sempre fieri dei loro figli che, sull’esempio dei genitori, erano cresciuti ben educati, disciplinati e amanti del lavoro e si dimostrarono tutti persone di buon carattere, miti, comprensive, socievoli e rispettose del prossimo. Non per niente quando vennero congedati il loro Foglio Matricolare riportò sempre la “dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore”.
Dopo la guerra fu conferita a Luisa la Medaglia commemorativa dedicata alle Madri dei Caduti con nastro tricolore su fondo azzurro recante la seguente iscrizione: “Il figlio che ti nacque dal dolore ti rinasce, o beata, nella gloria e il vivo eroe, piena di grazia, è teco”. Questo importantissimo ricordo, vera e propria reliquia familiare, è conservata dal cugino Luigi.

LA SESTA BATTAGLIA DELL' ISONZO

LA SESTA BATTAGLIA DELL’ISONZO
E LA CONQUISTA DI GORIZIA
(AGOSTO 1916)

“Pronta, Dodicesima!
Divisione di bronzo, è l’ora:
Brigata Casale,
Brigata Pavia,
Undicesimo, Dodicesimo,
Ventisettesimo,
Ventottesimo fanteria:
attenti al segno,
attenti al segno!
Ancora tre minuti,
due minuti,
uno: “Alla baionetta!”
E tutte le baionette
fioriscono sulle trincee,
tutta la selva di punte
ondeggia, si muove,
si butta sul monte,
travolge i nemici,
rigettandoli oltre le cime,
scaraventandoli giù,
a precipizio dentro l’Isonzo..."



Ai primi giorni di giugno, quando la potente offensiva austro-ungarica in Trentino era oramai in via di esaurimento senza aver colto gli obiettivi strategici che si era posta, a seguito della tenace ed eroica resistenza dei reparti italiani, il generale Cadorna, decideva di impiegare tutte le forze che potevano essere sottratte dalla fronte fra Adige e Brenta su quella dell’Isonzo in vista del progettato attacco contro il campo trincerato di Gorizia.
Fin dal febbraio del 1916 il Comando Supremo aveva deciso di lanciare, in epoca da determinarsi, una offensiva contro la testa di ponte di Gorizia e, in coerenza con tale decisione, comunicava tale intenzione ai comandi dipendenti, ma quando l’organizzazione dell’offensiva, in aprile, era stata quasi ultimata dovette essere sospesa per fronteggiare, il 15 maggio, la Strafexpedition austriaca.

Per fronteggiare l’offensiva austriaca in Trentino, Cadorna dovette inviare in quello scacchiere una parte delle truppe e delle artiglierie che in precedenza erano state destinate al fronte dell’Isonzo.

Con questa decisione il generale Cadorna ritornava alla sua primitiva idea strategica che aveva presieduto alle precedenti cinque battaglie dell’Isonzo, ossia “di operare offensivamente sulla fronte dell’Isonzo” per riprendere l’iniziativa e aprire la via verso Trieste e Lubiana. Sulla base di tale decisione il 16 giugno, Cadorna affidava l’alto compito di condurre la nuova offensiva al comandante della 3a Armata, Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, che presidiava la linea dal Sabotino al mare Adriatico.

La nuova manovra offensiva aveva come criterio di base la realizzazione della sorpresa strategica.
In particolare il Cadorna, approfittando del fatto che l’Austria era stata costretta a spostare nuovamente alcune divisioni dal fronte italiano a quello orientale per tamponare la pericolosa falla creata dall’offensiva delle armate russe del generale Brussilov in Galizia, operando per linee interne, ad iniziare dal 29 giugno, trasferiva la 5a Armata, dalla zona di Vicenza – Padova - Cittadella, sul fronte di Gorizia senza che gli austriaci ne avessero il minimo indizio.

Nel giro di poco più di un mese si spostarono sulla fronte Giulia 300.000 uomini, 60.500 quadrupedi, più di 800 cannoni e bombarde e 10.300 carriaggi.
Caratteristica di tale trasferimento fu la minutissima accuratezza della preparazione, la rapidità dell’esecuzione, la segretezza dei movimenti ottenuta col far conoscere a ciascun reparto la propria destinazione solo durante il movimento.

Della testa di ponte di Gorizia gli austriaci avevano fatto un fortilizio, al quale attribuivano un particolare valore strategico perché avrebbe assicurato, nel momento di una offensiva verso la pianura friulana, il passaggio indisturbato del fiume Isonzo alle unità attaccanti.

Il complesso dei lavori eseguiti dagli austriaci era imponente, e faceva della regione di Gorizia un baluardo pressoché inespugnabile.
Essa si appoggiava a dei robusti pilastri difensivi fra i quali si distinguevano per la loro elevata reattività il M. Sabotino, il M. Santo, il M. San Gabriele, le alture di Oslavia, il Podgora ed a sud il M. San Michele.

Vale la pena evidenziare che per l’Austria, dopo la perdita del Veneto nel 1866, che aveva portato i confini del giovane Regno d’Italia al fiume Judrio, quindi alle porte di Gorizia, quella zona era diventata per Vienna di grande interesse strategico in quanto costituiva un sistema difensivo capace di bloccare le direttrici di attacco verso Trieste e Lubiana.

Iniziata la guerra, il Comando austro ungarico, aveva concentrato a Gorizia forze e mezzi notevoli e della difesa aveva fatto uno dei capisaldi della propria condotta strategica.
Il generale Cadorna era favorito nella sua manovra da due fattori, uno geografico ed uno psicologico.

Per trasportare le sue grandi unità dalla pianura veneta sul fronte dell’Isonzo egli aveva a disposizione, oltre a numerose buone rotabili, due linee ferroviarie a grande capacità logistica che portavano all’importante strada di arroccamento Osoppo - Udine - Cervignano. Gli austriaci invece, dato la conformazione della rete ferroviaria, per il loro movimento avevano a disposizione solo il fascio di comunicazioni Trento –Bolzano – Dobbiaco – Klagenfurt - Gorizia: un arco molto ampio, esterno delle alpi trentine, carniche e giulie, che richiedeva molto tempo a percorrerlo.

Il Comando Supremo austro-ungarico, poi, era convinto che dopo la sanguinosa battaglia di primavera sostenuta in Trentino, l’Esercito Italiano per molto tempo non avrebbe avuto la capacità di organizzare una offensiva e comunque, presumeva che un attacco nell’Isontino, non avrebbe potuto avvenire prima della metà di agosto. Proprio questa valutazione fu il fattore psicologico che favorì il generale Cadorna nel lanciare la sesta offensiva nei primi giorni di agosto del 1916.

Ricordo che l’offensiva in parola, come già accennato precedentemente, contro il campo trincerato di Gorizia era già stata programmata prima che il generale Conrad sferrasse, a metà maggio 1916, la sua Strafexpedition, e avrebbe dovuto essere fatta, secondo le direttive del Comando Supremo, con procedimenti di carattere metodico, mirando cioè a impadronirsi di posizioni in grado da avvicinare la base di partenza per l’attacco in modo da ridurre il più possibile il tratto di terreno scoperto, esposto al fuoco nemico.
Nel tratto prescelto per la rottura era stato previsto un potente intervento di artiglieria e di bombarde, armi queste ultime, che avevano dato risultati molto convincenti con i francesi durante la Battaglia della Somme.

L’offensiva si presentava in quel momento opportuna dal punto di vista politico, per cancellare, con un concreto successo, sia i deludenti risultati della campagna del 1915, sia l’enorme impressione prodotta nel paese dal grave pericolo corso dall’Italia nella primavera del 1916 che aveva portato gli austriaci ad un soffio dalla pianura veneta e che portarono alle dimissioni del governo Salandra.
Una brillante vittoria avrebbe contribuito, altresì, ad elevare le quotazioni del nostro paese nei riguardi degli alleati, considerazioni alquanto scese per gli scarsi risultati ottenuti nel primo anno di guerra e per far cadere più in basso il morale dell’esercito asburgico già intaccato dopo il fallimento dell’offensiva in Trentino e la batosta subita in Galizia ad opera dell’esercito russo.

Inoltre il momento era favorevole poiché le potenze centrali in luglio erano pressate sia sul fronte francese che sul fronte russo.

Dato il logoramento dei mezzi e le gravi perdite subite in Trentino per fermare le armate imperiali, il generale Cadorna, prudentemente limitava l’ampiezza dell’offensiva, “in un primo tempo, alla conquista della soglia di Gorizia” e, precisamente nel tratto dal Sabotino al Podgora, affidandone il compito di sfondare il dispositivo nemico alla 3a Armata, visto che il settore di quel fronte rientrava nella responsabilità dell’armata stessa. L’epoca della manovra offensiva non era ancora stata fissata ma si presumeva che non potesse iniziare prima della metà del mese di luglio.
Il 27 giugno, sulla base degli intendimenti e criteri sanciti dal Comando Supremo, il comandante della 3a Armata comunicava al generale Cadorna il progetto di attacco dell’Armata che “prevedeva un’azione offensiva su vasta fronte, da Plava al Monte S. Michele, addensando però le fanterie e ammassando le artiglierie contro quel tratto della linea nemica che occorre sfondare”.
L’attacco principale prevedeva la conquista del Monte Sabotino e delle alture di Oslavia con l’obiettivo l’Isonzo, coadiuvato da un’azione sussidiaria contro la fronte Grafenberg - Podgora, mentre una vigorosa azione di collegamento doveva premere sulla cortina intermedia fra le alture di Oslavia e quelle del Grafenberg.
Il progetto di attacco, inoltre, prevedeva due offensive sussidiarie nei settori di Plava e del S. Michele, per fissare il nemico sulle sue posizioni.
L’inizio dell’attacco fu fissato per il giorno 6 agosto e quello delle azioni sussidiarie alle ali il 4 agosto.

Il Comando Supremo, allo scopo di rendere possibile alle nostre fanterie di arrivare sulle trincee nemiche, nei tratti in cui fosse giudicato conveniente concentrare gli sforzi, e fare irruzione, aveva emanato già il 18 aprile alcune direttive, sull’impiego delle artiglierie e particolarmente su quello delle bombarde, considerate come il mezzo più efficace per aprire i varchi nei reticolati.

Le forze contrapposte

Fronteggiava la 3a Armata italiana parte della 5a Armata del generale Boroevic. In particolare il XVI Corpo d’Armata a.u. (generale Wurm) presidiava il settore da Auzza al Vipacco. Il VII Corpo d’Armata (Arciduca Giuseppe) era schierato dal fiume Vipacco (escluso) sino a Duino.
La formidabile testa di ponte di Gorizia era difesa dalla 58a Divisione a.u. del generale Zeidler, schierata dal Sabotino a Sant’Andrea, costituita su tre Brigate, rinforzata da una compagnia di assalto e da cinque battaglioni del genio – in totale 22 battaglioni – e sostenuta da 164 pezzi di artiglieria di vari calibri, fra cui anche mortai da 210 e 305. La divisione poteva inoltre avere il concorso di fuoco delle artiglierie delle divisioni laterali, in particolare da quelle della 62a Divisione, schierate sul Monte Santo e sul Vodice.

Difendeva il Sabotino la IV Brigata di montagna austro-ungarica (colonnello Dani) con tre battaglioni in linea ed uno di riserva. La fronte della Brigata era suddivisa in tre settori: Sabotino nord, Sabotino sud e Val Peumica.
La 62a Divisione, più a nord, difendeva il settore di Plava ed il Monte Santo, di fronte al Monte Sabotino separati dalla profonda valle dell’Isonzo. Queste due divisioni costituivano il XVI Corpo d’Armata.
Alla sinistra della 58a Divisione era schierata la 20a Divisione con il compito di difendere il settore comprendente il San Michele e San Martino del Carso. Più a sud tre divisioni difendevano i settori di Doberdò, Monte Sei Busi, Monte Cosich e le quote 85 e 121 a est di Monfalcone.
La riserva dell’Armata era costituita dalla 23a Divisione, con la sola LXXXVI Brigata dislocata nella zona di Comen, sull’Altopiano di Hermada.

La 3a Armata all’inizio della battaglia era schierata dal Monte Sabotino al mare, disponeva di quattro corpi d’armata (VI, XI, XIII e VII), per un complesso di 18 divisioni, per un totale di 201 battaglioni, 1176 pezzi di artiglieria, 774 bombarde.
Gli austriaci si opponevano alla 3a Armata del Duca d’Aosta con 110 battaglioni, 440 mitragliatrici e 638 pezzi di artiglieria.

Con il trasferimento di 40 batterie di medio e grosso calibro, spostate all’ultimo momento dal Trentino all’Isonzo, l’Armata del Duca d’Aosta veniva a disporre di 516 pezzi di medio e grosso calibro e 660 di piccolo calibro oltre a 774 bombarde le quali producevano effetti devastanti sulle truppe schierate nelle trincee e sui reticolati.

Contro la testa di ponte di Gorizia (su un tratto di 9 chilometri di fronte) era contrapposto il VI Corpo d’Armata del tenente generale Luigi Capello, forte di quattro divisioni di fanteria in prima schiera (45a, 24a, 11a e 12a) e due in seconda schiera (43a e 47a) per un complesso di 74 battaglioni di fanteria, 603 pezzi di artiglieria e 390 bombarde.
Ogni battaglione era armato con una sezione mitragliatrici pesanti ed una di pistole mitragliatrici Fiat Ravelli a due canne; inoltre ogni divisione disponeva di un reparto mitragliatrici pesanti su tre sezioni.

L’XI Corpo d’Armata (tenente generale Cigliana) era schierato nella zona del S. Michele-San Martino del Carso con le divisioni 21a e 22a in prima schiera e la Brigata Granatieri, il 9° reggimento fanteria, l’XI Battaglione R.G.F. in riserva per un totale di 37 battaglioni, 217 pezzi di artiglieria e 210 bombarde.

Il XIII Corpo d’Armata (tenente generale Ciancio) presidiava la zona di Polazzo da quota 164 al Monte Sei Busi, con la Brigata Macerata e la 31a Divisione in prima schiera e pochi elementi in riserva per un totale di 19 battaglioni, 80 pezzi di artiglieria e 78 bombarde. Più a sud sino al mare era schierato il VII Corpo d’Armata del tenente generale Tettoni con le Divisioni 14a e 16a, rinforzate dalla 1a Divisione di Cavalleria appiedata in prima schiera, e con poche unità in riserva.

Erano in riserva di Armata l’VIII e il XXVI Corpo d’Armata, la 19a e la 49a Divisione.
Il generale Capello fu uno dei personaggi più discussi della guerra e del dopoguerra in Italia, per unanime ammissione, uno degli ufficiali generali più geniali e capaci che l’esercito italiano abbia mai avuto. Brillante e poliedrico, straripante di energia, dotato di grande spirito di iniziativa e di un notevole ascendente sulle truppe. Senza dubbio fu uno dei pochissimi generali capaci di avere proprie idee e di affermarle anche in contrasto con la caparbia volontà di Cadorna. Al VI Corpo d’Armata che comandava fu affidato il compito più importante, in poche parole, la conquista della testa di ponte di Gorizia.
La preparazione della battaglia era stata curata tecnicamente nei minimi particolari dal generale Capello e dai comandi dipendenti, nonché dal comando dell’XI Corpo, sul San Michele. In particolare Capello diede molta importanza allo schieramento delle artiglierie, migliorando l’osservazione e il collegamento con le unità di fanteria per sfruttare al massimo la preparazione, nell’intento di far giungere le fanterie sulle trincee nemiche insieme agli ultimi proiettili.
Erano state effettuate accurate ricognizioni per conoscere i particolari difensivi dell’avversario. Fin dal dicembre 1915 nel settore del Sabotino furono iniziati e poi compiuti imponenti lavori fino a giungere con trincee e camminamenti a stretto contatto con la linea austriaca, in modo da ridurre il numero degli sbalzi per giungere sulle trincee nemiche e di mantenere integre le fanterie sino al momento dell’attacco al riparo dal tiro delle artiglierie nemiche.
Animatore instancabile di quei lavori fu l’allora tenente colonnello Badoglio prima come comandante del 74° Reggimento fanteria e successivamente al comando del 139° Reggimento fanteria della Brigata 'Bari'.

Fritz Weber, ufficiale di artiglieria che combatté sul Carso e storico della Grande Guerra, nel suo libro “Dal Monte Nero a Caporetto” precisa che “la testa di ponte di Gorizia era un capolavoro di tecnica militare. Il Sabotino era stato trasformato in una immensa fortezza. Ogni compagnia, ogni plotone disponeva di caverne aperte con la dinamite nella roccia viva, dalle quali partivano cunicoli che conducevano alle due posizioni che tagliavano a un terzo e a mezza altezza il pendio del monte piuttosto scosceso e privo di ripari naturali. La vetta era circondata da una corona di postazioni di mitragliatrici in cemento armato, provviste di scudi. In base a quanto era dato umanamente prevedere lo si poteva considerare inespugnabile. Altrettanto ineccepibili, sotto l’aspetto tecnico, erano le fortificazioni intorno a Oslavia e a Peuma e quelle del Podgora.”

Data l’importanza che il comando austriaco dava a quel tratto del fronte, considerato come la chiave di volta di tutta la difesa della piazzaforte di Gorizia, l’organizzazione del terreno sul Sabotino aveva avuto uno sviluppo eccellente.

Efficacissima si dimostrò l’artiglieria dell’Armata che sorprese il nemico, poiché per la prima volta l’allora colonnello Segre, valentissimo ufficiale comandante dell’ artiglieria, fece effettuare i tiri di inquadramento con un solo pezzo per batteria, riuscendo così a mascherare la messa in posizione di numerose batterie giunte in rinforzo dal fronte trentino. Per la prima volta l’artiglieria fu impiegata con flessibilità e tempestività appoggiando da vicino l’avanzata delle fanterie.
Fu anche per la prima volta effettuato il tiro con proietti a gas contro le batterie nemiche che dal Monte Vodice battevano di fianco il Monte Sabotino.

Ricordo che il comando austriaco usò quest’arma illecita e atroce, il gas, all’ alba del 29 giugno 1916 sull’altopiano di Doberdò: in pochi minuti migliaia di fanti che si trovavano nelle trincee avanzate, privi di maschera antigas, caddero al suolo agonizzando. I micidiali vapori di cloro annientarono due Brigate, la Pisa e la Regina dell’XI Corpo d’Armata, pari a circa ottomila uomini, la gran parte soffocati dal fosgene.

Prima dell’azione fu risolta una questione di capitale importanza: il rifornimento dei proietti di artiglieria che, se avessero difettato durante la battaglia, l’artiglieria non avrebbe potuto svolgere il tiro di distruzione e di appoggio. Il 20 luglio il comando della 3a Armata veniva informato che per l’offensiva poteva fare assegnamento su 2.150.000 colpi.

Considerata la stagione e il territorio sul quale operavano le unità (natura calcarea delle rocce, scarsezza di acque superficiali e mancanza di acque sorgive perenni), particolarmente accurato fu il servizio idrico per rifornire l’acqua potabile ai reparti combattenti, mediante l’impiego di autocarri attrezzati con botti metalliche, botti di legno, barili someggiati e ghirbe da quaranta litri. Per rifornire tutti i reparti occorrevano circa 2.000 ettolitri d’acqua al giorno.

Nei mesi invernali molta cura fu dedicata alla preparazione morale e tecnica della truppa e degli ufficiali tendente ad elevare lo spirito e la disciplina, a sfatare eventuali pregiudizi sulla inespugnabilità di posizioni avversarie, ad instillare in tutti i soldati la fiducia nella potenza degli ingenti mezzi a disposizione e quindi la certezza di una vittoria rapida e completa.
Venne completato l’addestramento di tutte le unità dell’esercito con nuovi criteri e nuove direttive frutto delle esperienze vissute nei mesi trascorsi in combattimento dalle unità italiane e alleate.
Mi preme evidenziare che l’attacco italiano non era affatto atteso, ne supposto fra gli avvenimenti possibili, poiché il Capo di Stato Maggiore Austriaco era convinto che la durissima battaglia sostenuta sugli Altopiani avesse di molto indebolito la capacità combattiva dell’esercito italiano.
Ed invece era proprio vero il contrario, nel Trentino, l’esercito italiano aveva finalmente conosciuto se stesso, aveva perduto molti complessi d’inferiorità, si era misurato con le migliori truppe dell’esercito imperiale, ed in difficilissime condizioni, a prezzo di enormi sacrifici, le aveva arrestate.
Quanto da parte austriaca fosse considerato lontano un attacco contro le difese di Gorizia, lo si può capire dal fatto che il 31 luglio, pochi giorni prima dell’inizio dell’offensiva italiana, il generale Erwin von Zeidler, comandante della 58a Divisione, lasciava il comando per recarsi in licenza.

Gli ordini della 3a Armata per la conquista di Gorizia.

Decisa l’azione principale per il 6 agosto, il Comando della 3a Armata, il 31 luglio, diramò alle unità dipendenti gli ordini definitivi per l’attacco che prevedevano:

VII Corpo d’Armata: lanciare tenaci attacchi da iniziarsi con due giorni di anticipo rispetto all’azione del VI Corpo per attirare la maggior quantità di forze avversarie nel settore M. Cosich – Monfalcone (tratto di fronte molto sensibile per il nemico), e da proseguirsi nei giorni successivi;

VI Corpo d’Armata: attaccare e respingere l’avversario oltre l’Isonzo e prendere saldo possesso della soglia di Gorizia, attaccando le posizioni austriache della testa di ponte, con azione a fondo nel tratto Sabotino-quota 188 e con l’ala destra contro il M. Podgora;

XI Corpo d’Armata: concorrere, col fuoco delle artiglierie, all’azione dimostrativa del VII Corpo; successivamente attaccare contemporaneamente al VI Corpo, il San Michele considerato il pilastro meridionale della testa di ponte di Gorizia allo scopo di impedire al nemico di impiegare i suoi mezzi e il fuoco delle artiglierie contro il VI Corpo d’Armata;

XIII Corpo d’Armata schierato nella zona di Doberdò fra il VII e l’XI Corpo: concorrere, col fuoco delle artiglierie, all’azione dimostrativa del VII Corpo; assecondare successivamente l’azione dei corpi d’armata laterali (XI e VII), nel modo che le circostanze avrebbero indicato come più opportuno.

Il criterio d’impiego di tutte le artiglierie, bombarde comprese, doveva essere il seguente: svolgere, su spazio ristrettissimo, azione a massa con carattere di estrema violenza, per sconvolgere e distruggere le difese austriache ed aprire, attraverso esse, ampi e facili passaggi alle fanterie”.

La 2a Armata (ten. gen. Settimo Piacentini) doveva impedire alle opposte truppe austriache di spostarsi verso la fronte della 3a Armata italiana dove si svolgeva l’attacco principale. Tale compito doveva essere assolto con intense azioni di fuoco di artiglieria del IV Corpo d’Armata da svilupparsi il giorno 6 agosto nel settore di Tolmino, Santa Maria e Santa Lucia e del II Corpo d’Armata a favore del VI Corpo d’Armata del generale Capello.
La sera del 3 agosto lo schieramento della 3a Armata era compiuto.

Attacco alla testa di ponte di Gorizia.

Il 4 agosto, preceduta da un intenso fuoco di artiglieria e bombarde, iniziò l’offensiva con un attacco diversivo svolto da reparti del VII Corpo d’Armata contro le alture ad est di Monfalcone. L’attacco condotto con la massima energia ottenne il risultato sperato, cioè di attirare in quella selva di piccoli arsi dossi che hanno il nome anonimo della quota, rinforzi di truppe e di artiglierie.
Località queste che erano altrettanti calvari bruciati dal fuoco, tante volte strappate al nemico e tante volte riperse, ma sempre testimoni di mille eroismi dimenticati e di supremi ardimenti e sacrifici.
Gravi però furono le perdite subite durante i numerosi assalti delle posizioni austriache al punto che le unità attaccanti, dopo aver conquistato alcune trincee, dovettero ripiegare sulle basi di partenza.

Il mattino del 6 agosto, alle ore 06.45, incominciò la prima fase della preparazione d’artiglieria con un tiro intensissimo e ben aggiustato sugli osservatori, sui comandi, sulle postazioni di artiglieria e sulle linee di comunicazioni nemiche. Un’ora dopo iniziò il fuoco di preparazione diretto sulle vie di irruzione delle fanterie e sui reticolati specialmente ad opera delle bombarde, impiegate per la prima volta a massa, armi queste ultime di una efficacia di tiro spaventosa. Il tiro si dimostrò molto efficace e veramente demolitore contro i reticolati e le postazioni avversarie.

Capello destinò la 45a Divisione all’attacco del pilastro nord del Sabotino, la 12a Divisione all’attacco del pilastro sud del Podgora e le Divisioni 24a e 11a all’attacco del fronte fra i due pilastri. In riserva tenne due divisioni la 43a e la 47a , più un gruppo di truppe celeri (2 battaglioni di bersaglieri e 4 squadroni di cavalleria).
Le divisioni avevano il compito di conquistare le posizioni citate e ricacciare il nemico oltre il fiume Isonzo.

Vediamo l’azione della 45a Divisione ( comandante ten. gen. Venturi).
Sulla base del compito affidatole, la 45a Divisione, doveva svolgere un’azione principale in corrispondenza dell’alto e medio Sabotino e due azioni sussidiarie rispettivamente sul versante nord del Sabotino e in Val Peumica.

Per l’assolvimento del compito il comando della divisione costituì tre colonne di attacco: la colonna di sinistra, agli ordini del colonnello Badoglio, doveva conquistare l’alto Sabotino (quota 609 m.) indi spingersi sino ad occupare il costone di San Valentino e raggiungere la riva sinistra dell’Isonzo; la colonna centrale, agli ordini del maggiore generale Gagliani (comandante la Brigata Toscana), doveva irrompere nella zona Vallone del Sabotino, raggiungere il costone di S. Mauro e costituire una piccola testa di ponte sulla sponda sinistra del fiume; la colonna di destra, agli ordini del maggiore Boetti, doveva operare in Val Peumica e scardinare le difese di Casa Abete quando le truppe della colonna Gagliani spingendosi verso S.Mauro le avessero minacciate di accerchiamento.
Sulla fronte della divisione furono aperti dall’artiglieria e dalle bombarde due varchi ampi 200 metri ciascuno.
Alle ore 16 la colonna Badoglio costituita dal 78° Reggimento della Brigata Toscana, dal III° Battaglione della Brigata Abruzzi e dal III° Battaglione della Brigata Treviso, accompagnati dalle ultime salve di artiglieria che impedivano ai difensori di uscire dai ricoveri, si lanciavano all’assalto delle posizioni austriache sulla cima del Sabotino difese da un battaglione di dalmati del 37° Reggimento fucilieri, ne travolgevano la resistenza, e alle ore 16.40 conquistavano la vetta, mentre le artiglierie con grande precisione ne assecondavano gli sforzi neutralizzan-do le riserve ammassate sul retro delle posizioni nemiche.

Centinaia di soldati erano rimasti bloccati nelle loro caverne sottoposti al fuoco dell’artiglieria e dei fanti, alla fine gran parte degli sconfitti, nell’impossibilità di resistere, decisero di arrendersi.
Superata la resistenza l’azione proseguiva rapida sino a raggiungere a sera la linea S. Valentino-S.Mauro e il ponte ferroviario di Salcano sull’Isonzo dove i nostri fanti, impegnati a raggiungere la riva sinistra dell’Isonzo, incontrarono una durissima resistenza.

Con una operazione rapidissima, ove il valore, la grande perizia e la tenacia si fusero e della quale fu anima l’allora colonnello Badoglio, l’imponente caposaldo della difesa austriaca, il calvario di ben quattordici Brigate che si erano avvicendate dall’inizio della guerra per espugnarlo, fu conquistato, in breve tempo, dai valorosi soldati delle Brigate 'Trapani' e 'Toscana'.

“Fu come l’ala che non lascia impronte,
il primo grido avea già preso il monte!”
Con queste parole il poeta Gabriele D’Annunzio, ne cantò la brillante conquista, e i due versi furono presi come motto dalla 45a Divisione, protagonista dell’impresa.
Durante la giornata, a sud del Sabotino, la Brigata Lambro (205° e 206° Reggimento) della 24a Divisione assaltava la quota 188 ubicata a nord di Oslavia e il Dosso del Bosniaco, già in tanti sanguinosi combattimenti fieramente contesa e, dopo dure alterne vicende di lotta, il mattino del 7 agosto venivano conquistate.
Più a sud la Brigata Abruzzi (57° e 58° Reggimento) della 24a Divisione attaccava frontalmente le munitissime trincee di Oslavia e dopo durissimi scontri occupava il costone di Oslavia. Sulle falde a nord del Monte Podgora, la Brigata Cuneo (7° e 8° Reggimento) della 11a Divisione, con grande slancio occupava la selletta a nord del Podgora e raggiungevano i ponti n° 4 e 5 sulla riva destra dell’Isonzo; mentre reparti della 12a Divisione attaccavano le difese del M. Podgora-Calvario (Brigata Casale) e della piana di Lucinico (Brigata Pavia) e dopo aver superato tre ordini di trincee, si avvicinarono ai due ponti sull’Isonzo (il ponte ferroviario e il ponte stradale).
Gli austriaci resistevano ancora tenacemente sul Monte Podgora, su quota 206 del Grafenberg e in Val Peumica a nord di Oslavia e in corrispondenza del sottopassaggio della rotabile Mochetta - Podgora.

Il 3 dicembre 1915, nel corso della Quarta Battaglia dell’Isonzo, cadeva sul Podgora, laddove erano già caduti migliaia di soldati, il sottotenente Scipio Slataper, triestino, volontario giuliano, laureato in lettere, poeta, scrittore famoso di due opere “Il mio Carso” e “L’Ibsen” e direttore della fiorentina “La Voce” che tanto profondo segno ha inciso in tutta la cultura italiana. Alla sua memoria venne concessa la medaglia d’argento al Valore Militare.

La sera del 6 agosto, i comandi austriaci, sebbene avessero giudicato molto critica la situazione della 58a Divisione, non avevano ancora perduta la speranza di poter riconquistare le posizioni perdute, vennero predisposti per la notte stessa contrattacchi con l’impiego della riserva divisionale costituita da nove battaglioni.

Il generale Boroevic, comandante della V Armata, la sera del 6 agosto sentì il bisogno di emanare alle sue truppe un proclama di incitamento a resistenza tenacissima; ma il tentativo di esaltazione degli spiriti depressi fu vano e, l’indomani, nuove sconfitte pesarono su quelle truppe abituate per 15 mesi a vedere infranti gli sforzi generosi ed eroici dei nostri fanti.

Il contrattacco contro la nostra occupazione del Sabotino fu sferrato all’alba del 7 agosto con l’impiego di quattro battaglioni, dopo accaniti corpo a corpo che non conobbero limiti per crudeltà, gli austriaci furono respinti, caddero nelle nostre mani circa 700 prigionieri e 7 mitragliatrici.

Anche i contrattacchi austriaci per la riconquista del Costone di Oslavia e la selletta del Grafenberg non ebbero migliore fortuna, furono respinti.
Pieno successo ebbe invece il contrattacco lanciato dal nemico contro i Battaglioni della Brigata Cuneo, che la sera del 6 agosto avevano raggiunto i ponti n° 4 e n° 5 sulla riva destra dell’Isonzo, ma erano rimasti pressochè isolati dal resto della Brigata. Durante la notte furono accerchiati e all’alba attaccati da più parti. Dopo alcune ore di lotta accanita furono sopraffatti.

Per effetto della poderosa offensiva, degli intensi bombardamenti, la permanenza degli austriaci a Gorizia incominciava a divenire impossibile. Il mattino dell’8 agosto una pattuglia del 28° Reggimento fanteria della Brigata Pavia, guidata dal sottotenente Aurelio Baruzzi di Lugo di Romagna, con un ardito colpo di mano, conquistava il sottopassaggio della strada Mochetta – Podgora catturando 200 uomini e 2 cannoni che sbarravano la predetta strada. Nel tardo pomeriggio dell’ 8 agosto, reparti della Brigata Casale e Pavia, nella zona di Lucinico, passavano a guado l’Isonzo ove costituirono una robusta testa di ponte, e alle ore 16.00, il sottotenente Baruzzi, issava il tricolore sulle rovine della stazione ferroviaria di Gorizia.
Al prode ufficiale, transitato in servizio permanente effettivo per meriti di guerra, veniva conferita di “motu proprio” di S.M. il Re Vittorio Emanuele III, la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: “Comandante di un reparto di bombardieri a mano, si slanciava per primo in un camminamento austriaco, catturandovi uomini e materiale. Due giorni dopo, accompagnato da soli quattro uomini, irrompeva in un sottopassaggio della ferrovia preparato a difesa, contro i quali si erano spuntati gli attacchi di due giorni precedenti, intimando audacemente la resa a ben 200 uomini, che venivano catturati unitamente a due cannoni e ricco bottino di armi e materiali. Più tardi, partecipava al passaggio a guado dell’Isonzo, si spingeva in Gorizia e nella stazione centrale innalzava la prima bandiera italiana. Gorizia, 6-8 agosto 1916”.

Oramai la resistenza per i difensori della testa di ponte era insostenibile. Vista la situazione il Comando del XVI Corpo d’ Armata austro ungarico dava l’ordine alla 58a Divisione di fanteria di evacuare, per la notte dell’8 agosto, la testa di ponte di Gorizia organizzando la resistenza sulla riva sinistra dell’Isonzo e mantenendo solo sulla sponda destra una testa di ponte a difesa del ponte ferroviario di Salcano.
Il ripiegamento dei residui 5.000 uomini sui 18.000 della divisione, si effettuò in parte nella notte, in parte nel mattino successivo, combattendo a passo a passo.
Cadevano nel frattempo anche le alture di Peuma, il fortino del Grafenberg e la quota 240 del Podgora, pilastro sud della testa di ponte di Gorizia e quotidiano olocausto di tante giovani vite, dove gli ultimi reparti austriaci del pluridecorato 23° Reggimento degli Schützen dalmati-croati, denominati “I Leoni del Podgora”, rimasti a proteggere la ritirata, benché ormai isolati, opponevano ancora una accanita resistenza.
Nel medesimo tempo i genieri austriaci provvedevano a far saltare in aria tutti i ponti stradali e ferroviari ad eccezione del ponte di Salcano.

Cavalleria italiana entra in GoriziaAlle ore 2 del giorno 9, una Brigata di Cavalleria mista al comando del generale Barattieri, attraversato il ponte della rotabile a Lucinico, entrava in Gorizia e raggiungeva la Piazza Grande, oggi Piazza della Vittoria, mentre una colonna di cavalleria e bersaglieri eliminavano le ultime resistenze intorno alla città. La perdita della città costituì per l’Austria un duro colpo per l’orgoglio e il prestigio della Monarchia perché fu la prima città degli Asburgo sulla quale sventolò il tricolore italiano.

Per il glorioso esercito di Francesco Giuseppe la caduta della città, conosciuta come la “Nizza austriaca”, e del San Michele rappresentava assai più di una città semidistrutta o di una brulla collina carsica arata dalle granate. Per quei fieri soldati erano i luoghi leggendari dell’eroismo e dei sacrifici indicibili di migliaia di commilitoni Caduti. Era caduto uno dei simboli dell’antica Monarchia Asburgica.
La dura battaglia svoltasi per la conquista della testa di ponte di Gorizia e del San Michele, dopo tre giorni di sanguinosi combattimenti contro un avversario valoroso, agguerrito e deciso a non cedere, era vinta.

Oggi su quelle alture bagnate dal sangue di migliaia di Soldati sorge il Sacrario di Oslavia, esso custodisce i resti di 57.201 soldati italiani e di 13 Medaglie d’Oro al Valor Militare della 2a e 3a Armata caduti durante i combattimenti per il Sabotino, per il Monte Santo, per Oslavia e per il Podgora.

Nel frattempo si erano svolte le previste operazioni sul Carso condotte dall’XI, XIII e VII Corpo d’Armata per impegnare l’ala meridionale della difesa della testa di ponte di Gorizia, mentre il II Corpo d’Armata manteneva impegnata l’ala settentrionale dello schieramento austriaco.
Dopo dura e sanguinosa lotta le eroiche Brigate Brescia, Ferrara e Catanzaro della 22a Divisione espugnavano le quattro cime del S.Michele difeso strenuamente dai valorosi soldati della 20a Divisione Honvéd, baluardo leggendario che, da oltre un anno, aveva visto il generoso sacrificio di tante giovani vite. Non riusciva l’azione della 21a Divisione contro le difese di S.Martino del Carso, che dopo aver conquistato un primo ordine di trincee, a causa di un nutrito fuoco di artiglieria e di numerosi contrassalti avversari, dovette rinunciare a mantenere la posizione.

Più a sud, la 14a Divisione del VII Corpo d’Armata, continuando l’azione dimostrativa svolta nei giorni 4 e 5 agosto, dopo numerosi e impetuosi assalti conquistava alcune trincee avanzate dell’importante quota 85 (a est di Monfalcone).
Nel corso di questi assalti cadde eroicamente il Bersagliere Enrico Toti, trentaquattrenne da Roma. Scoppiata la guerra, nonostante gli fosse stata amputata una gamba per un incidente ferroviario occorsogli nel 1911, fece invano per tre volte domanda di andare al fronte ma senza esito; infine la quarta domanda gli fu accolta dal Duca d’Aosta, che destinò il Toti, con l’incarico di portaordini, al III Battaglione Bersaglieri Ciclisti, il quale: “come pervaso dalla fede e dalla febbre di tutti i grandi storpi e monchi dell’epopea italiana, arranca su per la china, innanzi a tutti, allo sbaraglio, lanciando bombe; e quando, ferito una prima, una seconda, una terza volta, sta per piegarsi sull’unico ginocchio malfermo, s’inarca e scaglia al di là del corpo dei Morti, al di là dello sguardo dei vivi, la irosa mortale stampella, comprimendo fra il cuore e le labbra il vivo piumetto palpitante d’amore”.
Alla memoria del bersagliere Enrico Toti, assurto a simbolo dell’eroismo nazionale, fu concessa la Medaglia d’Oro al Valore Militare.

Nei giorni seguenti la caduta di Gorizia, il nemico sottoposto all’azione incalzante dei nostri reparti e resosi conto di un possibile pericolo di sfondamento della fronte con tutte le sue possibili ripercussioni sulla situazione generale della guerra sulla fronte dell’Isonzo, si ritirava sulla seconda linea di difesa investita sul S.Gabriele - S.Marco - San Grado di Merna – Oppachiesella – quota 208 - alture est di Monfalcone e contro le quali posizioni il Regio Esercito avrebbe affrontato un altro periodo di durissime battaglie.

Senza dubbio la conquista di Gorizia costituisce un fatto d’arme da scrivere a lettere d’oro nelle gesta dell’esercito italiano e del popolo italiano.
Lo riconosce la Relazione Austriaca quando dice: “Con la conquista di Gorizia e dell’insanguinato Altopiano di Doberdò l’esercito del Re Vittorio Emanuele, dopo oltre un anno di lotta, aveva ottenuto un grande risultato tangibile, che rafforzò il prestigio italiano nella coalizione, e parve per un momento dare il tracollo alla bilancia degli insuccessi sofferti dall’Austria-Ungheria dal giugno in poi.”

All’indomani della perdita di Gorizia il Falkenhayn, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco, così si espresse: “Il 6 agosto, l’importante posizione della testa di ponte ad ovest di Gorizia fu perduta, e pochi giorni dopo anche la città cadde in mano agli italiani; l’avversario guadagnò terreno in molti punti della riva sinistra dell’Isonzo. Ciò produsse una grave crisi e costrinse eziandio a togliere alcune divisioni dalla fronte orientale, sostituendole con truppe germaniche.
Le fatali conseguenze dell’impresa compiuta per suo conto dall’Austria-Ungheria in Tirolo, continuano tuttora a manifestarsi, e l’ultima, cioè l’entrata in guerra della Romania a fianco dell’Intesa, stava per verificarsi.
A tale situazione difficilissima per gli Imperi Centrali contribuì certamente, ed in modo notevolissimo, l’Italia”.

Anche nel campo politico-militare a livello europeo la brillante vittoria delle armi italiane concorse efficacemente a determinare l’entrata in guerra, il 27 agosto, della Romania a fianco delle potenze dell’Intesa, incidendo, quindi sull’economia generale della guerra.
La vittoria costò alle forze italiane 6.310 morti, 32.784 feriti, 12.127 dispersi. La 5a Armata austro-ungarica, durante l’intera battaglia, ebbe complessivamente la perdita di 4.581 morti, 18.054 feriti e 17.512 dispersi.

Ritengo giusto e doveroso riconoscere che il nemico oppose lungo tutto il fronte ove si svolse la sanguinosa Battaglia una decisa, fiera, disperata resistenza e vendette a caro prezzo il terreno perduto.

La Sesta Battaglia dell’Isonzo con la presa di Gorizia è stata una delle più importanti vittorie della nostra guerra per il generoso slancio delle nostre truppe, per la strenua tenacia dei nostri avversari, per la perfetta organizzazione del terreno di attacco, per l’aderenza dei procedimenti tattici alla realtà della lotta, per l’addestramento e la preparazione morale della truppa, per il tenace e sapiente lavoro di approccio svolto dai fanti e genieri, per la genialità dei comandanti, per il duro colpo vibrato al prestigio dell’esercito imperiale; possiamo affermare che la Sesta Battaglia dell’Isonzo rappresentò un esempio di un magistrale attacco ben preparato, brillantemente diretto e riuscito.

Luigi Capello, il vincitore della battaglia di Gorizia, scrisse con legittimo orgoglio queste parole: “Durante la guerra non c’era stata, fino allora, una battaglia che in proporzione alle perdite abbia creato maggior risultato e abbia tonificato gli spiriti”.
Il generale Fortunato Marazzi, comandante della 12a Divisione, scriverà una frase ancor più commovente: “Ho potuto vendicare mio figlio Ottaviano caduto per la Patria”.
Il Consiglio dei Ministri, preso da inconsueta euforia, decideva di conferire a Vittorio Emanuele III la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Il Sovrano rispose al Primo Ministro Boselli: “Troverei profondamente ingiusto che mi venisse una così alta decorazione, mentre ho certamente fatto molto, ma molto meno di tante migliaia di semplici soldati ai quali non toccherà nessuna onorificenza”.