domenica 7 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE III-1

Aligi - 1
Ultimo figlio di Pergentino e Luisa fu Aligi, nato il 28 luglio 1910. L’anno precedente la Toscana era stata scossa dal terremoto. A quell’ epoca risalgono le numerose catene con cui furono rafforzate le pareti delle case di Monticiano che ancora si vedono affiorare dagli intonaci.
La giovinezza del giovane trascorse pressappoco come quella dei suoi coetanei. Oltre ai programmi di scuola imparò dal maestro della Filarmonica il solfeggio e gli venne anche assegnato lo strumento, il clarino, di cui era appassionato, ultimo passo prima dell’ammissione alla Filarmonica stessa. Ma la saggia mamma Luisa ben si avvide che lo studio contemporaneo del latino e della musica cominciava ad essere troppo gravoso per il figlio: “Il latino” diceva “non va d’accordo col clarino” e non lo obbligò più di tanto nei doveri… musicali anzi, volle che il clarino fosse messo da parte a favore dello studio delle materie scolastiche.
Aligi ricordava che nel 1926 a Monticiano arrivò l’energia elettrica. Leonardo Calossi parla di questo evento e dice di “ragazzi in fitta schiera, a corsa per le vie vociando allegramente”. Non ci è difficile pensare allo zio Aligi, sedicenne, in festa con il gruppo degli amici e compagni di scuola prender parte all’avvenimento pubblico andando più volte su e giù per le vie principali, da porta Maremmana fino al ‘Sodo’, ridendo e celiando… Ripensavamo a tutto ciò solo poco tempo fa quando - ancora una volta, ma che differenza! - vennero installati a Monticiano modernissimi lampioni lungo la via Barazzuoli….

Aligi ricordava un episodio che risaliva al 1917. Giungevano notizie sempre meno rassicuranti dal fronte di guerra finché non si parlò apertamente dell’azione nemica che aveva rotto le nostre linee fra Tolmino e Plezzo (Caporetto). Gli austriaci avanzavano minacciosamente verso la pianura. Ricordava Aligi:
Avevo solo sette anni, ma un episodio mi rimarrà per sempre fisso nel cuore e non potrò mai dimenticarlo!Una sera sull’imbrunire tornavo verso casa col babbo che mi teneva per mano quando si udirono delle voci provenienti dall’interno di una locanda appena illuminata da lumi a petrolio. Qualcuno commentava i fatti del giorno dicendosi preoccupato della situazione al fronte dove il nemico sembrava avanzare senza trovare resistenza quando udimmo una voce infame che esclamò: “Se Dio vuole, arriveranno anche a Venezia!” Il mio povero babbo che aveva già perduto Alighiero l’anno precedente sul Monte Giove e aveva altri tre figli in prima linea oltre ad un fratello e ad un nipote si fermò come fulminato. Sentii che la sua mano teneva ora la mia in modo incerto. Poi mi abbandonò del tutto andando a coprirsi il volto mentre un singulto lo scuoteva. Lo guardai attonito senza fiatare. Sulla pubblica via il mio vecchio piangeva! …
Aligi si arruolò volontario nel 1929 divenendo, a prezzo di duro studio e sacrificio, Sergente Maggiore nell’84° Reggimento fanteria ‘Venezia’ dove ebbe per collega più anziano e caro amico un altro monticianese: Francesco Petrini (1905 †1974), già compagno nelle prime classi di scuola, col quale restò in rapporti di profonda amicizia fino alla morte di questi avvenuta a Firenze.

Aligi fu ammesso poi per concorso all’Accademia Militare di Modena al tempo del gen. Italo Gariboldi e ne uscì Sottotenente di Fanteria nel 1934. I compagni di corso caduti in guerra furono 31 di cui 25 decorati al Valor Militare alla Memoria. Seguì subito dopo con pieno successo i corsi della Scuola di Applicazione a Parma (1935).
Bell’esempio di fervente soldato cristiano, prestò servizio da Tenente a Bologna e a Faenza (35° reggimento ‘Pistoia’, Divisione di “Fossalta”).

Fu poi trasferito in Libia. Prese servizio nel 116° reggimento ‘Treviso’ (Divisione “Marmarica”) dove si trovò allo scoppio della guerra il 10 giugno 1940.
Aligi fu valoroso combattente nell’ infuocato deserto dapprima durante l’avanzata su Sidi El Barrani - Halfaia (dal 9 settembre 1940) e in seguito nell’assedio della piazza di Bardia (9 dicembre 1940 - 3 gennaio 1941) dove venne ferito gravemente.
Per gli amanti delle cifre ricorderemo che gli italiani persero, in questa fase della guerra, tra prigionieri e uccisi circa 45.000 uomini, 430 pezzi d’artiglieria, diversi carri medi e centinaia di autocarri. La guerra in Africa Settentrionale proseguì ancora peggio con ben dieci nostre divisioni distrutte e 130.000 prigionieri nonostante i numerosi episodi eroici singoli e collettivi di cui da sempre sa dar prova in circostanze anche disperate il soldato italiano.

A seguito di questi sfortunati eventi del conflitto il Nostro subì una lunga e dolorosa prigionia in Australia (1941-1947!). Dopo la battaglia di Bardia per più di un anno, nonostante le ricerche, non se ne seppe nulla finché l’infaticabile fratello Alberto, sempre provvido, non interessò personalmente l’allora Segretario di Stato del Vaticano, cardinale Maglione. Questi, a sua volta, fece svolgere una ricerca nominativa tramite la Croce Rossa Internazionale e solo così si poté sapere che Aligi si trovava agli antipodi nel campo di prigionia di Myrtleford. Era stato ferito gravemente durante i combattimenti a Bardia, ma dopo essere stato curato in Palestina si era rimesso abbastanza bene in forze e si sperava che un giorno avrebbe fatto ritorno in patria.
In effetti il Nostro era stato catturato ferito - ben ventiquattro ferite che al ritorno non si curò minimamente di dichiarare alle autorità sanitarie italiane per un eventuale riconoscimento pensionistico per ’cause di guerra’- (quando vi fu chi si fece riconoscere come ferita di guerra il calcio ricevuto da un mulo! NdA).

I prigionieri furono condotti a Sollum, località che nei mesi precedenti i nostri avevano colpito con i pezzi d’artiglieria. Da Sollum in poi le lunghe colonne di prigionieri italiani furono sorvegliate da motociclisti con le moto Triumph, Norton ed autoveicoli fuoristrada. Gli Inglesi disdegnavano scendere dai mezzi per non impolverarsi le scarpe! Per giungere a Marsa Matruk chi potè camminò a piedi anche di notte, soffrendo soprattutto la stanchezza e la sete. Solo più tardi vennero fatti salire su autocarri. Transitarono non distanti dalla città di Alessandria d’Egitto, videro in lontananza i luoghi dove aveva prosperato la civiltà egizia e mediante un ponte in ferro attraversarono il grande fiume Nilo nella zona del delta. Ad Ismailia, località presso il canale di Suez, stettero cinque giorni chiusi in un recinto nel deserto. Erano spossati fisicamente e con il morale a terra. La notte era talmente freddo (era gennaio) che molti furono costretti a bruciare la giacca o le scarpe per riscaldarsi. Per cucinare veniva usata la paglia, tanto che una sera che il riso aveva acquisito il cattivo odore del fumo di paglia bruciata, questo era divenuto immangiabile.
Tutto il vestiario dei prigionieri fu ritirato e bruciato in alcuni forni. Perirono inceneriti anche le migliaia di pidocchi, che da mesi avevano tenuto fastidiosa compagnia alle nostre truppe! Furono poi assegnati a ciascun prigioniero: una giacca leggera color cenere con una toppa di stoffa nera quadrata cucita dietro le spalle, pantaloni lunghi con banda nera, scarpe nuove, sapone per la pulizia e persino dentifricio con spazzolino da denti.
Da lì, imbarcati su una nave da carico a Suez, i prigionieri stavano per essere internati in Australia quando la nave venne silurata nel Mar Rosso e tutti finirono in mare rimanendo in attesa di soccorsi per circa ventiquattr’ ore attaccati anche dagli squali. Furono raggiunti, ma ripescati solo in parte per paura dei sottomarini giapponesi che incrociando nei paraggi affondavano le navi inglesi. Oltrepassato Aden, di giorno i soldati andavano a ripararsi tutti all’interno della nave perché in coperta non si riusciva a resistere a causa del sole forte. La nave era scortata da due cacciatorpediniere della marina reale inglese; dopo cinque giorni di navigazione, ormai in pieno oceano Indiano, queste navi si sganciarono. Le probabilità che qualche nave da guerra italiana potesse liberarli, oramai, erano pressoché nulle. Rapida e triste ricorreva spesso sulla nave la cerimonia di sepoltura: chi non ce l’aveva fatta, avvolto in un lenzuolo bianco veniva fatto scivolare in mare.
I sopravvissuti raggiunsero la loro destinazione dopo più di una settimana di viaggio. L’Australia fu costeggiata dopo una breve sosta a Fremantle sino al porto di Sydney. Poi ancora una notte di treno e i prigionieri raggiunsero il campo di Murchison (in seguito trasferiti in quello di Myrtleford) nello Stato del Victoria.
Il campo era un vasto attendamento con uno spiazzo cintato da reticolati e dominato da torri in legno armate di mitragliatrici costantemente piazzate contro “i graditi ospiti di Sua Maestà Britannica”. Una volta partì una raffica che crivellò la cappella risparmiando per poco padre Baldi intento a recitare il breviario.

Per dare una pallida idea della vita nel campo ricorriamo ad alcuni ricordi di Aligi, narrati saltuariamente in famiglia, sugli aspetti che caratterizzarono gli anni di prigionia. Questi ricordi sono forse un po’ slegati fra loro, ma ci piace riferirli così come ci furono detti. Diciamo che Aligi non ne parlava volentieri avendo riportato dalla guerra e dalla prigionia un profondo solco psicofisico che, sebbene migliorato, non fu mai colmato del tutto…
C’era il carcere duro (in una garitta di lamiera infuocata dal sole contro la quale di notte venivano di continuo lanciati dei sassi per non consentire il sonno al prigioniero. A seguito dell'interessamento del Nunzio apostolico questa barbara punizione fu sostituita dall'interruzione del sonno del prigioniero mediante una forte lampada proiettata contro gli occhi del malcapitato. Come dire 'dalla padella nella brace' !), privazione dell’acqua, del sale, del tabacco, senza parlare delle inconcepibili sparatorie di sentinelle ubriache su poveri inermi che non avevano possibilità alcuna di difesa o di scampo. Quanti poveri feriti e anche morti di cui la responsabilità va senza dubbio ai carcerieri! Tanto più che le punizioni venivano inflitte sovente ingiustamente e spesso anche crudelmente come annotava giustamente il capitano Visetti. Quanto al vitto non mancava nulla, ma v’era addirittura abbondanza di alimenti. Il colonnello inglese aveva ricevuto notizie dei suoi due figli prigionieri in Italia che decantavano la generosità e il buon cuore dei nostri connazionali e non voleva essere da meno.



1 commento:

u.torti ha detto...

Salve, sto cercando di rintracciare superstiti della famiglia Torsoli di Monticiano, essendo la bisnipote di Giulia Torsoli vedova di Dante Torti fu Girolamo, deceduta ad Empoli nel 1937.
Se avete notizie storiche sulla mia famiglia, che in Monticiano aveva la propria residenza, ve ne sarei immensamente grata.
Il mio indirizzo:
u.torti@medicinaintegrale.it
Grazie ancora per l'attenzione
Umberta Torti