mercoledì 10 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE II-3

Segue da Parte II-2a
Azzurro fu arruolato nel giugno 1916. Il suo servizio militare vero e proprio ebbe inizio il 23 settembre successivo.
Il 7 ottobre indossò l’uniforme del 34° Reggimento di fanteria della Brigata ‘Livorno’, una delle dodici brigate della prima guerra mondiale con denominazioni geografiche toscane. Il 15 febbraio 1916 fu aggregato al Deposito Mitraglieri FIAT mod. 1907 a Crema.
Raggiunse il territorio dichiarato in stato di guerra il 14 febbraio 1917. Il 10 aprile se ne allontanò temporaneamente per malattia.
Dall’aprile 1918 fu trasferito al 68° Reggimento fanteria - Brigata ‘Palermo’ (520a Compagnia Mitragliatrici).

Combatté nelle trincee dell’ Hermàda (oggi Monte Querceto, ad est di Monfalcone) e sul dosso Fàiti. Si trovò ad affrontare il nemico in vari assalti alla baionetta, ma ne uscì sempre illeso. Verso la fine della guerra in uno di questi aspri combattimenti - spesso veri e propri duelli all’arma bianca in cui gli avversari avvinghiati in tremendi corpo a corpo si rotolavano sulle pietraie baionetta contro baionetta - venne preso prigioniero e condotto appena poco più in là, a Cividale del Friuli, nell’udinese occupato (oppure a Spilimbergo? Non lo ricordiamo bene… ma non ci sbagliamo di molto… NdA). Fu liberato dopo poche settimane dall’arrivo del nostro esercito vittorioso che adoperò subito il campo per rinchiudervi i prigionieri… austriaci!

Divenuta da lungo tempo una fortezza gigantesca, l’Hermada era la chiave di volta del fronte dell’Isonzo, l’ “indomabile bestia” a cui i giornali italiani dedicavano colonne su colonne. La sua caduta sarebbe costata agli austriaci la perdita di Trieste nonché allungato interminabilmente il fronte. Per dare una pallida idea della sua difesa da parte austriaca possiamo dire che su mille metri di linea, essi avevano ben trenta chilometri di trincee, di camminamenti, ripari, dozzine di caverne, osservatōri, nidi di mitragliatrici, batterie di cannoni.

Da anziano lo zio Azzurro raccontava ancora le sue esperienze di fante coscritto che cercheremo di riassumere per dare un’idea almeno approssimativa di quella tremenda fornace che fu la zona di guerra. Desideriamo dire subito che molto ancora ci sarebbe da scrivere sui trentasei mesi in trincea e lo dimostrano le innumerevoli pubblicazioni esistenti. Ma noi abbiamo altro scopo e inseriamo qui quelli che possono essere considerati i ‘ricordi di guerra’ dei familiari integrati, a volte, dai racconti, non meno validi, di altri reduci da noi conosciuti personalmente. Per ulteriori notizie precise su fatti accaduti rimandiamo volentieri a trattazioni specifiche non difficili da trovare.
Fatiche terribili per marce estenuanti di decine di chilometri con il pesante zaino affardellato; il caldo; il freddo; rancio sempre disturbato dai cannoneggiamenti del nemico che ne conosceva gli orari di distribuzione, e tormentati dalla sete (mezzo litro d’acqua era la razione giornaliera). Si cantava amaramente: “A Villa Vicentina ci stanno gl’imboscati e in cima al San Michele ci stanno i disperati.”
Sacchetti di sabbia nati per i ripari delle trincee che venivano svuotati del loro contenuto e adattati sul corpo a mo’ di camicia e che ogni giorno dovevano essere cambiati e bruciati perché anneriti da migliaia di pidocchi (“con la testa pien de’ peóci [pidocchi] / senza rancio da consumar…” diceva una nota canzone alpina).
Inizialmente concepite come rifugi provvisori per le truppe, le trincee erano divenute la sede permanente dei reparti di prima linea: furono allargate, dotate di ripari, protette con reticolati di filo spinato e da “tetti” di mitragliatrici. In attesa della posta e del rancio, in compagnia di topi e pulci, l’ozio creava un vuoto mentale rotto solo dalla paura dei bombardamenti o degli attacchi col i gas, mentre la morte era una presenza costante, materializzata nei compagni abbandonati nella “terra di nessuno” come veniva definito lo spazio che separava le prime linee dei due fronti. A coloro che nei momenti di sosta arrischiavano uno sguardo fuor della lugubre trincea non reggeva l’animo di sostenere la vista dei compagni che, nelle più tragiche positure in cui li aveva colti la morte, si disfacevano nel breve tratto che separava le opposte linee; spesso accanto alle gloriose salme ormai consunte dalla forza del tempo e degli elementi cadevano senza più speranza i miseri feriti, alla cui salvezza non giovava l’amore dei superstiti, chè la crudeltà della lotta - o la diffidenza che nella carità si mascherasse il tradimento - impedivano alle due parti di essere misericordiose verso i prodi fratelli.
Ogni attacco era preceduto da un intenso bombardamento: quando la fanteria usciva allo scoperto veniva falciata dall’artiglieria nemica e dalle mitragliatrici. Le infermerie, abituate ad armi bianche e colpi di fucile, erano impreparate a gestire traumi da artiglieria pesante: le lacerazioni provocate dalle schegge e infettate dai detriti del campo di battaglia causavano la “gangrena gassosa”, di fronte alla quale unica soluzione era l’amputazione degli arti. Le condizioni igieniche erano impensabili tra disagi fisici e psichici duramente sopportabili. La stretta contiguità tra corpi sani, feriti o cadaveri con viveri, rifornimenti, terra e fanghiglia creava le condizioni ottimali per la diffusione di infezioni batteriche, dissenteria, meningiti, tifo e colera, che si tentò di arginare mediante vaccinazioni di massa. A fianco dei feriti il numero dei malati era elevatissimo: circa il 20% dei 500.000 caduti italiani entro il 1918 morì per malattia.
Con la grande guerra la medicina fu obbligata a fare un enorme passo avanti. I soldati, spesso semplici contadini o artigiani, sempre vissuti in un mondo semplice e rassicurante, si trovavano catapultati in un inferno lunare, fatto di morte onnipresente, schegge di granata, lanciafiamme, assalti alla baionetta, con il rischio d’essere sepolti vivi da uno scoppio o da una valanga… e molti furono coloro che non dovettero rivolgersi al chirurgo, ma allo psicologo. Fra i primi a capire che la medicina non doveva curare solo le ferite nei corpi, ma anche quelle nelle anime, vi fu Gaetano Boschi, neuropsichiatra, che inaugurò in Italia una nuova disciplina medica: la psicologia di guerra.

Molti furono i casi di malattie mentali fra i quali quelli di nevrosi traumatiche, mutismo, psicosi degenerative e psicosi epilettiche (all’epoca chiamate ‘frenòsi’), in cui l’individuo, a seconda delle circostanze, si estrania, oppure inizia a urlare, perde l’equilibrio, cade, si morde la lingua ed emette bava dalla bocca. Altro caso quello del soldato affetto da psicosi maniaco depressiva, aggressivo contro i sorveglianti e contro sé stesso, che chiede continuamente di essere rimandato al fronte che considera casa propria… E’ la strada dell’irrazionale che diventa una fuga da un mondo angosciante per trovare rifugio in un mondo parallelo. Non mancarono sindromi autolesionistiche.
La vita di trincea ebbe effetti traumatici tanto sull’inconsapevole fante coscritto quanto sui volontari accesi di entusiasmo patriottico: “nessuno uscirà da questa guerra senza essere diventato una persona diversa” scriveva un volontario tedesco in una lettera a casa.

A causa delle durissime condizioni di vita in trincea alcuni reparti furono presi da scoraggiamento e solo attraverso una faticosa opera di convincimento personale e collettivo e il miglioramento delle condizioni generali con promessa di periodi di riposo in zone arretrate dal fronte si poté ricondurli all’ordine. Sebbene rari, non mancarono episodi in cui fu necessario reprimere con il massimo rigore, cioè mediante l’intervento dei Reali Carabinieri (denominazione dell’epoca) e magistratura militare, atti di vera e propria disobbedienza. Le condanne alla pena capitale furono 843 in tutta la durata della guerra. Per dovere storico, poiché abbiamo approfondito per nostro conto l’argomento, si deve comunque riconoscere che tali episodi furono complessivamente assai contenuti e non raggiunsero neppure da vicino, nel numero e nella forma, quelli che si verificarono, per esempio, nell’esercito francese nello stesso periodo.
Va detto che per tutto il conflitto la maggior parte dei capi d’accusa fu quella della diserzione e non del rifiuto d’obbedienza o ammutinamento o rivolta per i quali si ebbero, in definitiva, solo casi limitati.
Il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, cugino del re, a seguito dei gravissimi fatti, lungi dal sottacere quanto era accaduto, sottolineò la situazione in vari Ordini del Giorno alla sua III Armata rilevando che simili atteggiamenti non potevano essere tollerati in un’esercito in guerra e che i responsabili sarebbero stati colpiti dai più gravi provvedimenti, ma che, al tempo stesso, occorreva che i comandanti prevenissero tali eventi mercé il miglioramento delle condizioni dei soldati e la maggior cura nei confronti degli stessi sotto ogni aspetto:

“ ma io intendo che tali fatti si debbano invece prevenire con quella preparazione morale sulla quale tante altre volte ho insistito, ma che parmi non sia svolta da taluni comandanti con l’intensità che sarebbe necessaria. Molto si fa in teoria, ottimi ordini vengono emanati nei quali vibra elevatissimo lo spirito patriottico, ma talora essi non trovano quell’esplicazione pratica che era nell’animo di coloro che li dettarono
[…] Per fortuna gli incidenti avvenuti sono sporadici…”
Narrava Azzurro che in un periodo di relativa calma sul fronte bellico, un giorno era andato a fargli visita il fratello Alberto, allora capitano, il quale prima di andarsene lo apostrofò severamente usando il ‘voi’ e dicendo: “Che cosa significano quelle basette all’austriaca? Fatele sparire immediatamente!“ Azzurro infatti come molti giovani compagni d’arme si era lasciato crescere le basette secondo la moda del tempo anche in Italia, ma in uso specialmente nell’Austria-Ungheria. Alberto temeva, e forse non del tutto a torto in quel particolare momento storico, che i basettoni non fossero indice di sufficiente ‘italianità’…

Ricordava Azzurro essendo già avanti con gli anni:

“… Fui particolarmente sensibile al rimprovero del fratello maggiore, ma non di meno da un superiore in grado e, disciplinatamente, tratto dallo zaino il rasoio da barba e affilatolo rapidamente facendolo scorrere varie volte sulla cinghia di vacchetta, feci giustizia delle basette… ‘nemiche’….”

Al termine della guerra Azzurro non venne congedato, ma fu inviato di guarnigione all’isola di Rodi - zona di interesse strategico-politico italiano - e ci restò per circa un anno. Recita infatti il Foglio Matricolare con il consueto linguaggio burocratico: “Trattenuto alle armi per mobilitazione” e, finalmente, “Inviato in licenza straordinaria il 22 febbraio 1920”.
Infatti la smobilitazione, cominciata già nel dicembre 1918, aveva presentato aspetti di enorme delicatezza. Da una parte occorreva ridare all’organismo militare le normali proporzioni del tempo di pace, dall’altra non si potevano riversare di colpo nel paese centinaia di migliaia di uomini che avrebbero dovuto trovare un lavoro proprio nel momento in cui il passaggio dalle produzioni belliche alla normalità di pace imponeva chiusura di fabbriche e riduzioni d’ogni tipo di lavorazione. Il congedo dei soldati avvenne, perciò, con molta gradualità e quasi con lentezza, determinando, peraltro, malcontenti e ingiustificati risentimenti da parte di coloro che non potevano rendersi conto delle superiori esigenze e delle difficoltà esistenti in campo nazionale.

Azzurro trovandosi nel 1961 a Trieste in visita al fratello Aligi, che vi si trovava per servizio, colse l’occasione per compiere un’escursione nei luoghi carsici dove aveva combattuto durante la prima guerra mondiale e riconobbe esattamente il luogo dove, sopraffatto da soverchianti forze nemiche, era stato preso prigioniero. Evocò in quell’occasione i ricordi più dolorosi della sua permanenza al fronte alcuni dei quali abbiamo già detto. Si espresse sostanzialmente così:

“…Mentre contemplo questi luoghi di triste e gloriosa memoria, rivolgo un pensiero ai tanti compagni che partiti con me, baldi di giovinezza, perdettero quassù la vita nei reiterati assalti a questo fortilizio della difesa nemica… “

Volle anche visitare il molo ‘Audace’ che aveva preso il nome dal primo cacciatorpediniere italiano approdato sulle Rive triestine il 3 novembre 1918. Una curiosità: visitando la monumentale Piazza dell’Unità d’Italia (già piazza Grande fino al 4 novembre 1918), Azzurro osservò con attenzione i basamenti dei due grandi pennoni d’onore dedicati agli Autieri d’Italia eretti sul lato che costeggia la Riva (oggi Riva 3 Novembre) e notò con perspicacia non comune un grave errore uniformologico sulle divise degli Autieri fusi in bronzo ivi raffigurati. Trovandoci sul luogo in epoca recente desiderammo far nostro questo particolare che ricordavamo e in effetti potemmo constatare che realmente i gambali delle sculture risultano allacciati… al contrario e cioè… slacciati! Però, che occhio!
Nel 1968, nel Cinquantenario della Vittoria, Azzurro fu creato Cavaliere di Vittorio Veneto dal Presidente della Repubblica e gli fu assegnata la Medaglia d’Oro ricordo di combattente. L’Ordine Militare di Vittorio Veneto e una Medaglia d’Oro ricordo furono infatti istituite nella ricorrenza del Cinquantenario con apposita legge del Parlamento (L. 18 marzo 1968 n° 263) per “esprimere la gratitudine della Nazione ai cittadini che avevano contribuito alla vittoriosa conclusione della prima guerra mondiale”. L’Ordine fu riservato ai combattenti che erano stati decorati della Croce al Merito di guerra o che fossero stati nelle condizioni per ottenerla. La Medaglia ricordo, inoltre, fu riservata ai combattenti che avevano prestato servizio militare in guerra per almeno sei mesi.


Con il congedo militare di Azzurro, avvenuto al Deposito di Livorno il 5 maggio 1920, si concluse la fase tristemente ‘bellica’ nella storia della Famiglia. Altre nubi avrebbero però presto offuscato il cielo delle belle speranze. L’Italia aveva avuto 700.000 caduti (di cui 120.000 in prigionia) e un milione e mezzo di feriti decine di migliaia dei quali inabili per sempre.

Abbiamo appena detto di… ‘altre nubi’. Occorre che si parli pure del periodo post-bellico senza peraltro voler minimamente entrare nella polemica politica che è argomento estraneo ai nostri propositi e, del resto, è fin troppo conosciuto da tutti.
Il borgo di Monticiano aveva ben scarse risorse e, terminata la guerra, i lutti e le discordie politiche lo fecero rabbrividire. Infatti la bella struttura di concordia e di armonia che i combattenti e le loro famiglie avevano sognato di costruire dopo la luminosa vittoria andava a pezzi. Il governo si dimostrò debole nel difendere l'ordine interno e nel perseguire le méte della politica estera. D'Annunzio aveva, con un pugno di volontari (‘Legionari’) partiti da Ronchi, occupato Fiume in nome dell'Italia (12 settembre 1919): Giolitti, succeduto a Nitti, lo fece scacciare dalle truppe in nome del Trattato di Rapallo per il quale, perché Fiume fosse città libera, aveva acconsentito la Dalmazia agli Yugoslavi.


La smobilitazione si svolse al buio, silenziosamente, in un'atmosfera in cui veniva gettata al vento ogni disciplina. I soldati e i loro cari provarono l'umiliazione di veder tornare nelle caserme le bandiere dei gloriosi reggimenti senza che fossero salutate, senza quel caloroso gesto di simpatia che è dovuto a coloro che tornano dopo quarantun mesi di guerra. Insomma la nazione dimenticava i quasi settecentomila morti e il milione e mezzo di feriti per dedicarsi sotto la guida di alcuni politici come Nitti, Albertini, Salvemini a negare perfino i confini e l'estensione territoriale.
Il cuore delle famiglie degli ex-combattenti era in tumulto e un profondo senso di amarezza corrodeva l'anima di tutti.

Vi fu anche un doloroso episodio avvenuto nel periodo in cui comunisti e fascisti si affrontavano a mano armata in una lotta politica senza quartiere. Essendo stato assassinato in un’imboscata di comunisti grossetani il senese Rino Daus, giovane combattente e reduce dalla guerra (29 giugno 1922), si giunse al punto, lungo la strada che ne riportava il corpo a Siena fra Monticiano e Torniella, di sparare sul cadavere, atto vile e inutilmente ingiurioso che suscitò molta impressione e sdegno nel sentire comune fra gli abitanti del luogo e ben rappresenta anche per noi che non eravamo ancora nati il clima di quegli anni. Questo fatto ne seguiva di poco un altro avvenuto a Roma dove il 24 maggio1922, al passaggio dal popolare quartiere di San Lorenzo, vennero esplosi vari colpi d’arma da fuoco contro il corteo funebre che riportava nella sua città il corpo dell’eroe Enrico Toti morto il 5 agosto 1916 a quota 85 nei pressi di Monfalcone scagliando la sua stampella di invalido contro il nemico. Nei disordini che seguirono si ebbero morti e feriti.
Questa lotta che si preannunciava fratricida, fin da subito, introduceva l’embrione dell’odio politico-ideologico che poi si sarebbe sviluppato apertamente - anche in piccoli centri come quello di Monticiano - nel quadro della seconda guerra mondiale con una vera e propria guerra civile. Ma non anticipiamo i fatti. Per esaurire rapidamente l’argomento diciamo che la situazione portò in breve al regime fascista che durò vent’anni. Anche chi conosce di meno la storia europea sa quel che avvenne in seguito.

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