giovedì 11 ottobre 2007

LA FAMIGLIA TORSOLI DI MONTICIANO - PARTE I-2

Lo zio Aligi ricordava che suo padre fu particolarmente colpito dalla nomina a maggiore di fanteria del primo figlio, Alberto. Egli che aveva svolto il servizio militare di leva nell’ultimo quarto del secolo decimonono ricordava certo bene quella che poteva essere la prestigiosa figura d’un maggiore dell’epoca. Spesso in casa diceva compiaciuto alla moglie: “Luisa!...Il nostro Alberto…’promosso maggiore’!...” e non trovava altre parole per esprimersi ché tanto ne era legittimamente orgoglioso…
Pergentino, nato il 17 marzo 1866, morì il 3 settembre 1939 alla vigilia della seconda guerra mondiale e Luisa, nata nel 1868, morì l’ 11 dicembre 1953 avendo avuto la gioia e la consolazione di vedere i figli sopravvissuti felicemente sposati e con prole e vari affezionati nipoti, compresi quelli che sarebbero poi divenuti gli autori di queste pagine agli amati Nonni dedicate di cuore…

A Monticiano fu intitolata ad Augusto Barazzuoli, uomo politico e Deputato al Parlamento per varie legislature nativo della cittadina, la via principale che dal ‘Sodo’ (Piazza Sant’Agostino) conduce in piazza Cavour dove si trova il monumento ai Caduti e da cui si raggiunge la piazza Garibaldi. In quest’ultima sorgeva l’antico Palazzo Comunale con parte delle antiche mura cittadine (Porta Nord) e dove resta la Chiesa parrocchiale (detta ‘Pieve’) del sec. XII dedicata ai SS. Giusto e Clemente. Da questa piazza aveva origine la via del Portico che poi divenne quella via Mazzini dove oggi abita Francesco T. con la sua famiglia in quella che fu la casa dei nonni Azzurro ed Ermellina e che, ancor prima, era stata di Pergentino e Luisa. La strada conduce alla piazzetta del Litigio (oggi della Concordia detta comunemente la “Buca”) dove pure per un certo periodo abitarono in una casa presa in affitto Luisa e Pergentino.

Alighiero Torsoli, nato il 22 novembre 1893, cadde a 23 anni sul Monte Novegno - Monte Giove (Prealpi vicentine fra Brenta e Adige) il 13 giugno 1916.

Se l'istinto della conservazione è tanto forte in chi cadente, pieno d'anni e d'acciacchi, trascina grama vita, ben più forte dovrebbe essere nei giovani che vedono schiudersi dinanzi a loro una vita piena di gioie e di promesse, di speranze e desideri. Ma per la gioventù italica nata nell'ultimo scorcio del XIX Secolo non fu così. Andare al fronte, significava mettere a repentaglio la vita. Il solo fatto quindi di correre senza esitazioni e senza riserve era il primo atto di eroismo.
Alighiero, soldato di leva iscritto alla 2a Categoria fu ufficialmente arruolato il 29 marzo 1913, ma lasciato per il momento in congedo illimitato. Fu chiamato alle armi il 21 agosto 1914 e inviato all’87° Reggimento fanteria della Brigata ‘Friuli’ (dal 25 agosto), reggimento del quale aveva già fatto parte il fratello Alberto durante la guerra di Libia nel 1911-12. In due rare fotografie li troviamo ritratti ciascuno con le mostrine dell’87°.
Il 4 gennaio 1915 lo vediamo nel 128° Reggimento (Brigata ‘Firenze’) di Milizia Mobile con l’incarico di Trombettiere e infatti si trovava in questo reggimento quando scoppiò la guerra. Vi rimase fino al 30 marzo 1916.
In data 31 marzo 1916 venne trasferito nel 69° Reggimento di fanteria della Brigata ‘Ancona’.
Alighiero, ch'era di sentimenti italianissimi, giunto al fronte comprese che il suo posto era in prima linea. Credette che allora soltanto cominciasse il suo compito e si batté eroicamente col suo reggimento. Ma l'aver dato con entusiasmo il suo braccio non bastò ad appagare la sua sete di gloria; egli seppe compiere intero il sacrificio, quando cadde a 23 anni sul Monte Giove nell’accanita resistenza che fu necessaria per resistere alla ‘Strafe Expedition’ (‘Spedizione punitiva’) austriaca ideata dal gen. Conrad, Comandante dell’Esercito austro-ungarico nel primo periodo di guerra e lungamente preparata sia materialmente che moralmente.

Alighiero in un primo tempo fu dato ‘disperso’ nel combattimento del 13 giugno 1916, ma poi dovette ritenersi ‘caduto’ in quella terribile giornata. Dai registri del reggimento infatti risulta :

“Morto sul Monte Giove per ferita riportata per fatto di guerra, iscritto al n° 589 del registro degli atti di morte.
69° Regg. Fanteria, lì 13 giugno 1916”


Alighiero ebbe lo stesso preciso destino - di tempo e quasi di luogo - del sottotenente Antonio Bergamas (morto sul vicino Monte Cimone lo stesso giorno) la cui madre ebbe la ventura di trovarsi sulle rive triestine in quel fatidico pomeriggio del 3 novembre 1918 all’attracco della prima nave italiana al molo San Carlo. Il marinaio che aveva calato l’ancora le donò il nastro del cappello con la scritta «R. Nave “Audace”». Proprio Maria Bergamas, fu poi chiamata ad eleggere nella Basilica di Aquileia (ottobre 1921) fra undici salme di ignoti Caduti dallo Stelvio al mare quella che sarebbe stata inumata sull’Altare della Patria in Roma.

Punto importantissimo della guerra fu il Monte Cimone, alto 1230 metri sul livello del mare, a settentrione di Arsero, posto alla confluenza dell’Astico e del Posina. Dal Cimone era possibile raggiungere in due ore di marcia, la pianura, nelle vicinanze di Piovene. Dalla sua cima si dominava gran parte dell’Altopiano dei Sette Comuni e si poteva battere con l’artiglieria tutta la zona dell’Assa. L’altura dominava inoltre la Val d’Astico, la Val Posina e quindi l’accesso al Passo Barcarola, ragione per cui era la posizione chiave di tutta la linea dei monti Lessini. Senza esserne padroni, non si poteva tentare né l’avanzata verso Trento, né la riconquista della linea Lavarone-Folgaria e dei forti di Verena e di Campolungo. Monte Cimone perciò era una cima d’enorme rilievo strategico e nel corso della guerra avrebbe potuto decidere le sorti di Vicenza e di Venezia.
Consapevole dell’importanza del Monte Cimone, il comando austriaco ne aveva affidato la difesa a uno fra i migliori reggimenti dell’esercito imperiale: il 59° reggimento di Salisburgo che i contemporanei connazionali definirono “l’ineguagliabile”. Per evitarne l’aggiramento era stato collocato all’entrata di Val Freddo, una valle laterale del Posina, un altro reggimento di provato valore, il 14° di Linz. Così il Cimone pareva inespugnabile e se gli austriaci lo persero, ciò fu dovuto all’eroismo degli italiani, specie dei reparti alpini che ne scalarono letteralmente la vetta dalla parete sud in una notte di tormenta e si gettarono sugli austriaci in un corpo a corpo epico (luglio 1916) mentre altri attaccavano il 14° di Linz in Val Freddo. Ciò, dobbiamo dirlo, smentisce l’opinione di quelli che sostengono l’idea che in guerra il valore individuale non ha alcuna importanza, di fronte alla tecnica e al caso. Le operazioni per il possesso del Monte Cimone costituirono, tanto per gli italiani quanto per gli austriaci, un luminoso esempio di eroismo.
In seguito l’unico modo che il nemico ebbe di riconquistare la cima del Cimone fu quello di far scavare dal suo Genio delle gallerie a partire dalla Caverna Sud, preesistente, e piazzare all’interno enormi quantitativi di esplosivo (8700 kg di dinamon, 4500 kg di dinamite, 1000 kg di polvere nera che allo scoppio provocarono un grande cratere largo cinquanta metri e profondo venticinque) facendo poi saltare letteralmente la vetta del Monte (23 settembre 1916, esattamente due mesi dopo la conquista italiana) così come d’altra parte, mesi prima, gli italiani avevano fatto al Col di Lana occupato dagli austriaci. Veri drammi per entrambi gli avversari. Piccoli episodi, forse, nel gigantesco quadro della lotta tra i popoli europei, ma di così tragica grandezza da meritare di essere perennemente ricordati.

Il 15 maggio 1916 con un furioso bombardamento gli austriaci dettero inizio alla loro ‘Strafe-Expedition’. Lo schieramento di artiglierie di tutti i calibri, compresi il 381 e il 420, fu veramente formidabile. L’azione fu diretta personalmente dall’arciduca Eugenio.
Il 23 maggio fu fatto saltare il ponte di Roana sulla Valdassa, opera magnifica costata anni di lavoro; qualche giorno dopo cadde in mano agli austriaci anche Asiago, già trasformata dalla rabbia delle artiglierie e dagli incendi in una spaventosa rovina. Il torrente nemico dilagò travolgente ed impetuoso e forti posizioni caddero in pochi giorni in mano all’avversario.
Ma contro la decisa volontà dei nostri di resistere ad ogni costo la marea nemica finalmente si infranse. [A questo proposito è rilevante una lettera scritta fin dal mese di maggio dal generale Cadorna in cui egli, a seguito di alcuni episodi di cedimento dei reparti, affermò che – tenuto conto delle circostanze belliche – ogni atto di viltà di fronte al nemico sarebbe stato punito immediatamente e con la massima severità NdA].
Si svolsero combattimenti di terribile violenza, ma il nemico riuscì solo a massacrare i suoi migliori battaglioni. I nostri si comportarono in modo veramente eroico con i reparti della 27a Div. Italiana (Brigate ‘Sesia’, ‘Sele’ e ‘Volturno’). Erano gli ultimi giorni dell’ultima fase dell’attacco austriaco (11-18 giugno) operato dalle due ali interne delle due Armate (3a e 11a austriache) a cavallo dell’Astico nel disperato tentativo di sboccare nella pianura vicentina.
Il nuovo sforzo austriaco fu così diretto: la sinistra dell’11a Armata (XX Corpo) su Monte Novegno e Schio; la destra della 3a (I Corpo) su M.Mazzé e Breganze.
Ma, come abbiamo detto, il tentativo del XX Corpo austriaco si infranse il 12-13 giugno a M. Novegno contro la resistenza della 35a divisione; e fra il 7 e il 10 ugualmente era fallito l’attacco del I Corpo austriaco contro le posizioni di M. Zovetto e M. Lemerle, difese rispettivamente dalle divisioni italiane 30a (XVI Corpo) e 33a (XXIV Corpo).
Il nostro comando decise quindi di passare alla controffensiva; essa si svolse brillantemente tra il 16 e il 20 giugno.
Il Regio Esercito reagì con valore, ma ebbe perdite gravissime che si calcolarono in oltre 75.000 uomini in circa due mesi di accanita lotta.
La resistenza eroica e tenace valse ad allontanare l’immenso pericolo, insito nell’offensiva avversaria, di vedere la pianura vicentina raggiunta dal nemico che sarebbe, così, caduto alle spalle del nostro schieramento sull’Isonzo.
Si videro colonnelli d’artiglieria battersi all’arma bianca, una volta distrutti i loro pezzi: generali combattere tra i soldati, moschetto alla mano. E persino cappellani militari guidare gli assalti degli sparuti avanzi di intere Brigate. Le truppe stettero come un uomo aggrappato al davanzale della sua stessa casa, che rischia di essere buttato giù, e precipitare nell’immenso vuoto della cara pianura. I nostri uomini si batterono per qualcosa che capivano perfettamente, cioè per difendere effettivamente e veramente la Patria, e non solo per considerazioni di onore o di prestigio. E furono grandi, come grandissimi sarebbero stati al Montello ed al Piave solo due anni dopo.

Il combattimento fu cruento: le artiglierie di tutto il settore vomitavano sulle trincee una tempesta di ferro e di fuoco, mentre le mitragliatrici tentavano di spazzare il campo ed evitare l’urto. Ma l'urto fu inevitabile e sanguinoso.
Il 12 Giugno un formidabile schieramento di artiglieria posto soprattutto sull'altopiano di Tonezza, apre la strada all'attacco delle fanterie austriache contro il trincerone di Monte Novegno - Monte Giove. La linea italiana sembra cadere, ma un provvidenziale sbarramento di artiglieria costringe gli austriaci a riparare nelle proprie trincee.
Al mattino del 13 riprende l'attacco austro-ungarico, ma anche questa volta si spegne contro le ormai provate truppe italiane che vengono nei giorni successivi rinforzate da rincalzi. Il 69° reggimento ‘Ancona’ di Alighiero con leonino coraggio, si aggrappò alle inaccessibili cime. Travolto dalla furia della battaglia nell’epico combattimento il corpo del nostro caro si fuse con le rocce carsiche. La gloriosa salma non fu mai ritrovata, ma le sue gesta di umile Fante insegneranno alla gioventù italiana come vive, opera e, se necessario, muore chi sa amare la Patria e sente l’orgoglio di essere italiano. Egli morendo lasciò alla Famiglia il più nobile ed il più grande esempio di altruismo ed il retaggio più ambito per la gioventù della rinnovellata Italia mentre altri tre fratelli combattevano in altri settori del vasto fronte.


A metà giugno con la controffensiva italiana sull'Altopiano di Asiago e anche nel settore Posina le ormai stanche fanterie a.u. si ritirano su una linea più facile da difendere che si svolge sulla sinistra del Posina dal Monte Majo al Cimone. Il Priaforà viene rioccupato dagli italiani e anche la conca di Arsiero, abbandonata dagli Imperial-Regi viene rioccupata dalle truppe italiane.
Con la successiva conquista del Cimone da parte italiana e la riconquista austriaca con lo scoppio della nota mina, il fronte si assesta sulle posizioni che resteranno immutate fino al 1918.
E’ possibile che i resti di Alighiero siano stati tumulati come “Ignoto” nel Sacrario Militare di Oslavia dove sono raccolte 57.740 salme per lo più ignote (36.000). Si tratta di soldati Caduti nelle Undici battaglie dell’Isonzo dall’Altipiano della Bainsizza al Vipacco. Vi sono pure inumate 13 Medaglie d’Oro al V. M. Oppure, e forse più probabilmente, nel Sacrario Militare di Asiago dove sono custodite le spoglie di altri 54.285 Caduti di entrambi i fronti.
Nel Suo ricordo e in Suo onore vogliamo ricordare alcune strofe dell’inno che il celebre autore della ‘Leggenda del Piave’ dedicò al Milite Ignoto:

Soldato Ignoto e Tu
Sperduto fra i meandri del destino !
Mucchio senza piastrino
Eroe senza medaglia
Il nome tuo non esisteva più.
Finita la battaglia fu chiesto inutilmente
Nessun per Te poteva dir: “Presente !”
………………………………………
Soldato Ignoto e Tu
Ritorna dai meandri del destino!
Brilla il tuo bel piastrino
Fregiato della palma
Tu sei l’Eroe che non morrà mai più!
E solo la tua salma che è volta ad oriente
Da Roma può rispondere: “Presente!”

(dall’Inno al Milite Ignoto di E. A. Mario pseud. di Giovanni Gaeta)



Recitava un marmo nel Cimitero di guerra di Gallio:

CONTRO LA BALDANZA NEMICA
GIA’ SOGNANTE SUA FACILE PREDA
I NOSTRI CLIVI FIORENTI
LE NOSTRE UBERTOSE PIANURE
QUESTI PRODI
ALTO LEVANDO IL GRIDO
“DI QUI NON SI PASSA!”
FECERO DI PETTI GAGLIARDI
INSORMONTABILE BARRIERA


GIU’ DALLE VETTE
DEL LORO SANGUE VERMIGLIO
FRATERNA PIETA’ LI COMPOSE
META PERENNE
DI RICONOSCENZA DI AMORE E DI FEDE
AD OGNI CUORE ITALIANO


Ben si addice ad Alighiero la motivazione della Medaglia dOro al Valor Militare dedicata al Soldato Ignoto:

“Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessible nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senza altro premio sperare che la Vittoria e la grandezza della Patria.
24 maggio 1915 – 4 novembre 1918”
Seppero il nome mio gli umili Fanti
Quando balzammo insieme al grido: “Avanti !”



Aldo Torsoli, fu assegnato al 27° Reggimento di fanteria della brigata ‘Pavia’.
Nato il 29 dicembre 1899 - quando la sua classe fu chiamata alle armi aveva 16 anni e mezzo - accompagnato dai voti e dalla benedizione dei suoi, seppe rispondere all'appello senza esitazioni, anzi fu lieto di offrire il suo braccio alla Patria in guerra seguendo le orme degli altri familiari che si trovavano già al fronte.
Era stato dichiarato soldato di leva di 1a categoria e lasciato in congedo illimitato il 7 maggio 1917.
Il suo Foglio Matricolare annota che l’arte dichiarata era quella di maniscalco, statura m 1,54½, torace m 0,86, occhi grigi, naso piccolo, capelli castani e lisci, il colorito roseo, la dentatura sana.
Chiamato alle armi e giunto al deposito del 27° Reggimento fanteria il 14 giugno 1917. Giunto in territorio dichiarato in stato di guerra il 21 giugno 1917.
Il 12 settembre 1917 fu dichiarato come facente parte della 2a categoria al Distretto di Siena.
Trasferito al 262° Reggimento fanteria della Brigata ‘Elba’ (Deposito 19° Fanteria Brigata ‘Brescia’) il 10 novembre 1917.
Il 17 maggio 1918 lasciò il territorio di guerra perché ammalato e venne ricoverato all’Ospedale Territoriale n° 16 di Firenze da dove il 12 giugno venne inviato in licenza illimitata in attesa di decisioni ministeriali dopo aver subito visita medica collegiale. Dal 17 giugno in licenza straordinaria - con assegni previsti di L. 5 - in attesa dell’espletamento degli atti medico-legali (Ospedale Militare di Firenze).
Fu definitivamente congedato il 16 ottobre 1920 (con assegno rinnovabile a decorrenza dal 12 giugno 1920) perché riconosciuto inabile al servizio militare a norma del Decreto Legge ecc. ecc.
Il Foglio Matricolare annota diligentemente anche:

“Pagato il premio di congedamento in L. 150 (centocinquanta) dal deposito del 19° Regg. Fanteria.
Concessa dichiarazione di aver tenuto buona condotta e d’aver servito con fedeltà ed onore.”


Il suo reggimento si era coperto di gloria nel ’16 partecipando col reggimento gemello, 28° fanteria (e con il 231° e 232° fanteria, Brigata ‘Avellino’ – nella seconda guerra mondiale ‘Brennero’ NdA), alla presa di Gorizia (Gen. Capello, II C. d’ A.) ed anzi era stato tra i primi reparti, varcato l’Isonzo, ad entrare nella Città (agosto 1916). Era infatti dislocato nella zona di Oslavia vicinissimo a Gorizia.
Conosciuta la storia del valoroso 27° fanteria, Aldo si disse lieto di appartenervi e si ripromise di concorrere, con tutte le sue forze e all'occorrenza anche con la vita, per il trionfo degli ideali del Risorgimento. Svelto ed intelligente, Aldo partecipò con entusiasmo e con valore a tutte le azioni che si svolsero in quell'epoca nel suo settore essendo di esempio ai compagni.

La città di Gorizia era stata fortificata divenendo il "campo trincerato" più munito d'Europa. I monti che la circondavano, il S. Gabriele, il S. Michele, il Sabotino, il Montesanto, il Podgora ed altri ancora, erano stati anch'essi trasformati in inespugnabili fortezze. Uno di questi, il Podgora, dopo la battaglia con la quale gli Italiani riuscirono a conquistarlo, cambierà il nome in "Calvario", a causa dell'enorme tributo di sangue versato.
La conquista di Gorizia ebbe un eco enorme in tutta Europa. Proprio perché considerata imprendibile. Inoltre sfatò l'iniquo mito che considerava gli Italiani incapaci di battersi seriamente.
Tra le truppe che combattevano davanti a Gorizia c'era anche il poeta ventiseienne toscano Vittorio Locchi. Dipendente delle Poste e Telegrafi era partito volontario in guerra. Per celebrare la liberazione della città compose un Poema dal titolo "La Sagra di Santa Gorizia". Oggi è completamente dimenticato, ma sino agli anni '40 veniva insegnato nelle scuole. Qui si vuole proporre il passo finale quando le truppe italiane dopo l'ultimo assalto entrano in città.
Da La Sagra di Santa Gorizia
di Vittorio Locchi (1889-1917)

Il poemetto che segue è l’opera più nota di Vittorio Locchi. Narra in toni epici la battaglia per la presa di Gorizia (6a Battaglia dell’Isonzo). Venne pubblicato postumo. Infatti l’autore morì nel mar Egeo (Capo Matapan), dopo tre giorni di navigazione, il 13 febbraio 1917, a causa del siluramento del piroscafo 'Minas' che trasportava truppe italiane verso Salonicco in Macedonia. Nato a Figline Val d'Arno, egli era andato a combattere con l’entusiasmo dei ventenni. Da testimonianze dei superstiti del naufragio risulta che Locchi, nonostante avesse avuto la possibilità di salvarsi, preferì inabissarsi insieme ad altre centinaia di fanti affrontando il suo destino con determinazione.

[…] Tutte le notti uragani,
acqua a rovesci,
acqua e vento sulle trincee
e la povera fanteria,
la santa fanteria,
sguazzava nelle sue fosse
[…]
La mia Divisione,
la mia Divisione viveva!
Pronta, Dodicesima
Divisione di bronzo, è l’ora!
O mie belle brigate:
Brigata Casale,
Brigata Pavia,
Undicesimo, Dodicesimo,
Ventisettesimo,
Ventottesimo fanteria
è l’ora, è l’ora…
Ancora tre minuti,
due minuti, uno: ‘Alla baionetta!’
[…]
Sei nostra!
Sei nostra!
Sembra gridare l’assalto.
La Città è apparsa,
apparsa a tutti nel piano,
dalle vette raggiunte:
e tende le braccia.
E chiama,
lì, prossima,
tutta rivelata,
nuda e pura nel sole
di ferragosto,
è libera! libera!
sotto la cupola celeste
del cielo d’Italia,
sotto le Giulie,
l’ultime torri
smaglianti della Patria.

E su la prima linea
Nessuno più fiatava,
sentendo sul cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.
Ogni fante è proteso;
ogni ufficiale è davanti
ai suoi fucili.
I colonnelli estatici,
muti, stanno per dare
il segno ai reggimenti.
Nel cielo passano
ombre e ombre,
ombre di mamme,
ombre di figli,
ombre di giorni
lontani d’adolescenza,
visi amati,
mani sante,
carezzevoli
su tutte le facce:
parole d’amore
aliti di labbra
gesti religiosi.
E’ l’ultimo addio,
il consolo dei vivi
ai morituri che partono
che vanno
verso i confini
della vita terrena,
verso la luce, verso la gloria
attenti al segno,
attenti al segno!
Ancora tre minuti,
due minuti,
uno: “Alla baionetta!”
E tutte le baionette
fioriscono sulle trincee.
Tutta la selva di punte
ondeggia, si muove,
si butta sul monte
travolgendo gli Austriaci
rigettandoli
oltre le cime,
scaraventandoli giù
a precipizio
dentro l’Isonzo….



La mattina del giorno 9 agosto la cavalleria fece il suo ingresso a Gorizia. Eppure vi era stata preceduta da due ore dal giovanissimo sottotenente Aurelio Baruzzi (di Lugo di Romagna) del 28° Reggimento della ‘Pavia’. Egli alle sei del mattino aveva alzato il tricolore sulle rovine della stazione ferroviaria. Una delle rare medaglie d’oro non alla memoria. La vittoria con la quale la ‘Santa’ Gorizia fu annessa per sempre alla madrepatria fu splendida, soprattutto sul piano morale, ma le perdite complessive nel corso della Battaglia di Gorizia furono da parte italiana 1.759 ufficiali e 49.475 soldati; da parte austriaca 862 ufficiali e 39.285 soldati. Tale era stato il prezzo per la conquista di una fascia di terreno profonda circa 6 chilometri e lunga circa 25.


Abbiamo detto poco sopra che Aldo era nato il 29 dicembre 1899 e facilmente avrebbe potuto essere registrato all’anagrafe come nato il 1° gennaio 1900, ma la madre, per carattere sempre aliena dall’accondiscendere alle furbizie umane, volle che fosse registrato nel giorno effettivo della nascita secondo verità. Ora bisogna sapere che la classe 1900 fu chiamata alle armi, ma vennero avviati al combattimento solo i volontari.
Invece risultando nato nel 1899 (“i Ragazzi del ’99” si diceva) Aldo era stato inviato subito in trincea fra i combattenti dove, per tutti, non mancarono le occasioni di farsi onore. Ne fu ben consapevole il Comandante Supremo gen. Armando Diaz che, succeduto al Cadorna, volle citare i giovani del ’99 all’ordine del giorno:
“I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico e sul fiume, che in questo momento sbarra al nemico le vie della patria, in un superbo contrattacco, unito il loro ardente entusiasmo all’esperienza dei compagni più anziani, hanno trionfato. – …Io voglio che l’Esercito sappia che i nostri giovani fratelli della classe 1899 hanno mostrato di essere degni del retaggio di gloria che su essi discende” .

E diceva:

“Li ho visti i “ragazzi del ‘99” andavano in prima linea cantando.
Li ho visti tornare in esigua schiera; cantavano ancora…”


L’On.le Alfredo Baccelli, ministro della Pubblica Istruzione, il 15 agosto 1918 ebbe a dichiarare in Parlamento:

“Debbo chiamare milizia romana quei giovanetti del 1899 i quali, poco più che diciottenni, sciolti appena dall’amplesso materno, usciti appena dalle amorose sollecite cure domestiche, caldi per così dire di nido, spiccarono un volo che nessuna epopea potrà mai vantarsi di superare e, nello smarrimento di tragiche ore, seppero con il loro petto adolescente sbarrare la via ad uno dei più agguerriti eserciti del mondo. Onore a loro, onore alle loro madri, onore all’Italia, per questa superba pagina di eroico valore. Terra di miracoli la nostra, se bastarono volti imberbi e fragili petti a rinnovare una gesta romana, se quei fiori appena sbocciati di gioia e di luce, seppero trasformarsi così prontamente in roccia e macigno”.


Il Presidente del Consiglio dei Ministri, Vittorio Emanuele Orlando dichiarò in Parlamento il 12 dicembre 1917:

“Ai valorosi che dall’Altopiano di Asiago alle foci del Piave, facendo scudo dei loro petti alla Patria – veterani di questa guerra immane e giovani reclute del ’99, che hanno offerto la loro esistenza per la difesa del suolo e dell’onore d’Italia – giunga il fiero e riconoscente saluto della Patria, nella forma più alta, qui al cospetto della rappresentanza della Nazione”.


Giovani eroi della Patria, essi rappresentarono il sacrificio, l'ardente passione, la salvezza e la fortuna della Patria. Senza di loro forse non si sarebbero avute le gloriose giornate del Grappa e del Piave, senza di loro la vittoria forse non ci avrebbe arriso.

Le perdite di uomini non derivarono soltanto dai combattimenti sostenuti. Lo vedremo anche più avanti specificamente. Furono numerosi i soldati che si ammalarono di tifo, colera, tubercolosi polmonare, scorbuto, malaria perniciosa, reazioni allergiche, congelamenti nei disagi delle trincee, malattie a quei tempi di incerto esito - e spesso mortali - mancando le odierne medicine. Altri, sfortunati, perirono in incidenti durante le istruzioni militari (lancio di bombe a mano). Non ultima causa di morte fu la pandemia passata alla storia come ‘febbre spagnola’ o polmonite (grippale) spagnola, come da molti si diceva [virus H1N1, detto anche A0] durante tre ‘ondate’ in meno di dodici mesi nel biennio 1918-1919 che in tutta Europa mieté più vittime dell’intera guerra; circa 375.000 (ma alcuni sostengono 650.000) soltanto in Italia.

Molti, sopravvissuti a stento, subirono gli effetti ritardati dei gas asfissianti lanciati proditoriamente dall’austriaco. Fu il caso del nostro Aldo.
Un ufficiale italiano incontrato dallo zio Alberto alla fine della guerra gli raccontò di essersi trovato presso Tolmino quando gli austriaci avevano usato i gas. In quel caso si era trattato di fosgene. Con parole piene di commozione gli descrisse la fine del reparto al quale era stata affidata la difesa del lato meridionale della valle: ottocento uomini erano morti in silenzio, come se fossero stati colpiti dal pugno di un fantasma, senza che nessuno di essi si rendesse conto di quello che avveniva. I superstiti furono al massimo una dozzina…


Sul granitico baluardo contro cui invano cozzò la ferocia nemica Aldo combatté con tutto il vigore giovanile e con tutta la volontà di compiere il suo dovere ricacciando il nemico, ma fu colpito dai nefasti effetti dei gas, di questa terribile e vile risorsa nemica. Superinvalido di guerra, morì nel 1925 dopo lunghi periodi di ricovero in ospedali diversi, tra cui quello di via Giramontino, presso il Monte alle Croci, a Firenze. Come il fratello Alighiero, caduto nel ’16, fu esempio di inesauribile valore e di elevato senso del dovere che portò avanti in tanti anni di dolorosa inguaribile malattia. Educato dai genitori ai più alti sentimenti di disciplina e di patriottismo, a chi ne lodava i meriti acquisiti in guerra, egli - modestissimo - diceva di aver fatto ben poco per la sua Patria che adorava:

"…In guerra eravamo legati alla nostra Bandiera, alla nostra divisa, ma non c'era astio ideologico, non c'era volontà d'annientamento del nemico. Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio, ma non ho combattuto per un vantaggio, per nulla che non fosse il nostro Paese…".
Dobbiamo aggiungere che quando fu annunziato che gli austriaci si servivano di mazze ferrate, di randelli muniti di punte aguzze, per finire i feriti e i morenti colpiti dai gas asfissianti e incapaci a difendersi, un grido d’orrore si levò in tutto il mondo civile e nessuno avrebbe immaginato che essi potessero menar vanto di questa nuova infamia di cui il loro esercito si era macchiato. Invece una cartolina reggimentale austriaca dell’epoca il cui disegno venne riportato dalla ‘Domenica del Corriere’ (Anno XIX, n° 48 – ‘Il cinismo dei barbari’), e che ci rifiutiamo di mostrare, riproduceva un austriaco in uniforme chiamato a simbolizzare l’esercito di Sua Maestà Apostolica che stringeva nel pugno non un’arma degna di soldati civili, ma l’infame mazza ferrata. Va detto, per amore di verità, che in principio i militari tedeschi rifiutarono l’impiego di un’arma così tremenda che apriva la strada alla scientifica distruzione di massa, appellandosi ai principi della guerra ‘cortese’ dove l’ufficiale va all’assalto alla testa ai suoi prodi tenendo la sciabola sguainata e inneggiando all’imperatore. Ma in seguito misero da parte gli scrupoli. La guerra era cambiata per sempre.
Va pure detto che, sdegnato dall'utilizzazione di gas tossici diventata una pratica corrente sul fronte francese, l’erede al trono Carlo d’Asburgo, Colonnello Generale e futuro imperatore d’Austria-Ungheria dal 1916, ottenne, dopo aver parlamentato con i Russi, che nessuno dei due campi ne facesse più uso. Rifiutò altresì che fossero bombardate le città. Approfondiremo più avanti i molti meriti di questo pacifico monarca, vittima eccellente di nefaste trame politiche.

L’8 agosto 1924 il Ministero della Guerra - a firma del ministro Di Giorgio - decretava che Aldo Torsoli di Pergentino era autorizzato a fregiarsi della Medaglia istituita a ricordo della guerra 1915-1918. In seguito la burocrazia dette luogo ad un ulteriore decreto simile (e infatti i documenti sono due), ma con il cognome scritto con la ‘z’ invece che con la ‘s’ (17 febbraio 1926, post mortem, a firma Mussolini).

Nel bacio della Patria che tutti i trionfi sovrasta, Aldo morì consumato dalla malattia a Monticiano nell’aprile 1925 e fu tumulato nella stessa tomba dove nel dicembre 1953 avrebbe trovato posto anche la Mamma Luisa.
L’anno precedente (1924) il suo nome era stato dato dal fratello maggiore Alberto, sposato nel 1923 con Luigia Rossi (†1981) - e unico in famiglia realmente informato dell’inesorabilità delle lesioni subite dal fratello - al primo figlio nato.
Questi diventerà poi medico a Pisa, a soli 32 anni conseguirà la prima libera docenza e, dedicatosi alla ricerca, diverrà professore universitario di fama internazionale, pioniere della gastroenterologia e per questo universalmente celebrato.


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